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L’opera da tre soldi di Brecht/Weill

Debutta al Teatro Olimpico di Roma L’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht e Kurt Weill con la regia di Luca De Fusco: tre ore di spettacolo, importante e molto discusso (anche per i costi), prodotto dal Teatro Stabile di Napoli e Napoli Teatro Festival Italia in collaborazione con Fondazione Teatro di San Carlo. La valenza di denuncia politica del testo (del 1928), parodia del dramma in tre atti (già ispirato a L’Opera del Mendicante di John Gay del 1728 sulla malavita londinese), è sottintesa, tuttavia passa quasi in secondo piano perché De Fusco ricerca soprattutto la visionaria spettacolarità creando un musical moderno. A cominciare dalle scenografie di Fabrizio Plessi: imponenti e fumose, richiamano l’Albergo dei Poveri, con le finestre nella quali si susseguono multiformi video proiezioni (dalle candele, alla città) o che incasellano ad hoc le discinte prostitute. Sulla scena si ammassano rottami tecnologici, fra monitor di computer e fili aggrovigliati, segno distintivo di decadenza quasi postmoderna. Il musical di De Fusco è un tripudio di omaggi alle fumose atmosfere del jazz, alla Repubblica di Weimer e al cabaret Anni Venti, a Dickens e alle atmosfere gotiche di Tim Burton, ma soprattutto alla grande stagione dell’Espressionismo tedesco: lo spettacolo è costruito e tagliato in superbo bianco e nero quasi fotografico, con sfumature di grigio che dominano interamente la scena. Bianco, nero e grigio anche nei costumi di Giuseppe Crisolini Malatesta che fra guepiere, eleganti gessati, ghette e mantelli dal sapore Anni Trenta, omaggia anche la scandalosa Charlotte Gainsbourg del Portiere di notte. La traduzione in italiano di Paola Capriolo è molto efficace, ma forse perde un po’ di forza e di fascino del testo originale, la direzione di Francesco Lanzillotta alla guida del Parco della Musica Jazz Orchestra, è vivace e duttile fra jazz (Mack The Knife su tutti diventato un celebre standard jazz), opera, musica sacra o d’intrattenimento diverte lungo le tre re di spettacolo. Certo, manca e volutamente lo straniamento brechtiano nella recitazione, ma ci sono molti altri risvolti d tutti da godere, la recitazione a tratti volutamente sopra le righe, la professionalità e l’estrema versatilità degli attori dal canto al ballo, alla recitazione. I personaggi che sfilano nella parata iniziale si trasformano in una sorta di marionette dal volto bianco, carico di cerone e dalle espressioni accentuate, quasi caricaturali, a volte appositamente congelati in un fermo immagine nella recitazione o nelle espressioni. Massimo Ranieri è un perfetto Mackie Messer, sfrontato delinquente, fascinoso e un po’ spaccone, consumato artista del placoscenico che balla, canta e recita senza sosta. Gaia Aprea è Polly Peachum, la giovane sposa di Mackie, qui vezzosa e deliziosa, davvero molto brava e spumeggiante nel canto (e già apprezzata interprete canora per De Fusco nell’Impresario delle Smirne). Lina Sastri è una dolente, fedifraga e romantica Jenny delle Spelonche, che riempie la scena e cattura gli applausi. Tutto il cast è di alto e indiscutibile livello professionale, da Ugo Morosi (Peachum) a Margherita di Rauso (Clelia Peachum, molto brechtiana), genitori di Polly, quasi ridicoli nell’ossessione di far condannare a morte Mackie a Paolo Serra, l’autoritario Jackie “Tiger” Brown, capo della polizia amico di Mackie. Uno spettacolo accattivante e suggestivo tutto da ammirare. In scena fino al 19 febbraio al Teatro Olimpico di Roma, poi in tournèe a Ravenna e Venezia.

 

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