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“Vocazione” di Danio Manfredini

Foto di Manuela Pellegrini
Foto di Manuela Pellegrini

Mettersi a nudo e raccontarsi nella profonda intimità di quello che non è solo un mestiere, ma una Vocazione, una necessità di vita, forse un destino dal quale è impossibile fuggire. Danio Manfredini in “Vocazione”, andato in scena all’Arena del Sole di Bologna, racconta la necessità di essere ciò che si è, anche se dentro questa definizione ci sono milioni di altre sfaccettature, personaggi, storie. È tutto scarno sulla scena perché per dire la verità su un mestiere che tratta di “finzione”, bisogna essere autentici, bisogna davvero mettersi a nudo. Non c’è niente sul palco a supportare la grande bravura di Danio Manfredini, la sua fisicità riempie la scena e il suono della sua voce, piena, possente, magica, incanta e cattura. Di lato alcune sedie e degli abiti che sono rigorosamente indossati a scena aperta, per far vedere al pubblico anche il cambiamento e la difficoltà di morire e rinascere nel tempo di un cambio d’abito.

Ad accompagnare Manfredini in questo viaggio c’è un altro bravo attore, Vincenzo del Prete che interpreta alcuni dei personaggi evocati dall’attore che, tramite un viaggio del pensiero, ripercorre la sua storia attraverso le infinite storie di cui si è nutrito e che ha reso reali. Anche la sceneggiatura stessa è un intreccio di componimenti dove “gli attori” sono protagonisti. Testi come Il gabbiano di Cechov, Il teatrante di Thomas Bernhard, Parsifal di Mariangela Gualtieri, l’Amleto di Shakespeare e altri, tessono il cammino di un attore e delle difficoltà che può incontrare nel suo tragitto ma, nello stesso tempo, si racconta anche un’urgenza, un bisogno di essere più che di fare, un’inclinazione, proprio tutto ciò che viene racchiuso nella parola “Vocazione”.

Ed è proprio quando l’attore (Manfredini) si trova solo con l’occhio di bue puntato addosso che si dimena, si contorce, cerca di fuggire, ma allo stesso tempo è rassegnato al suo destino e le parole, che inseguono quella luce narrano le paure, i ripensamenti, la solitudine e l’inquietudine che questo mestiere porta con sé e, infine, ci si chiede il senso di tutto ciò: “ma a chi importa se ogni sera in scena mi mangio la vita?”.

I personaggi che il vecchio attore protagonista rievoca fanno il resto. Con un’alternanza di tragico e comico, e anche con un occhio ad altre forme di vocazione, come quella dell’amore ad esempio o del rapporto genitore-figlio, Manfredini regala un affresco denso di emozioni, molto diverse tra loro. Si ride, ci si commuove, si riflette, ci si sente anche scomodi su quella sedia, perché la riflessione sull’attore porta inevitabilmente anche a riflettere sul ruolo dello spettatore: si prende tutto ciò che accade sul palco con indifferenza oppure ci si lascia coinvolgere e travolgere da questo Teatro, si è spettatori addormentati oppure incuriositi, attenti, coscienti?

Infine, dopo essere stati penetrati da mille stati d’animo ci si ritrova in fondo a un tunnel dal quale però si intravede una luce. La luce dell’Arte che rimane sempre accesa e non si spegne mai. Lo stesso Manfredini nelle sue riflessioni suggerisce che “dove c’è talento non esiste la vecchiaia”. E ci si culla pensando all’Arte imperitura, che tutto supera, e al “destino dolcissimo e terribile dell’attore di non finire mai”.

 

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