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Dinamo

fotodi Claudio Tolcachir, Meliisa Hermida, Lautaro Perotti

con Daniela Pal, Marta Lubos, Paula Ransenberg
musica dal vivo Joaquin Segade
disegno luci Ricardo Sica
scenografia Gonzalo Cordoba Estévez
coproduzione Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Fundación Teatro a Mil, festival d’Avignon, Maison des Arts de Créteil, Teatro la Plaza, centro cultural San Martin, sesc – São Paulo
con il supporto di Théâtre National de Bordeaux en Aquitaine

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Anche in questa edizione del Napoli Teatro Festival è tornata la drammaturgia argentina con Claudio Tolcachir e la sua compagnia Timbre 4.

Lo spettacolo Dinamo sembra offrire una sintetica campionatura di una proposta teatrale certamente differente da quelle nostrane. L’impressione complessiva della piéce che riusciamo ad avere dopo la sua conclusione, è quella di aver assistito ad un gioco apparentemente estemporaneo di tre monadi, tre donne che agiscono sul palcoscenico rimandando alla platea una velleità performativa più che drammaturgica. Si tratta di una narrazione che in qualche modo non si preoccupa di stabilire una vera e propria definizione d’intreccio, se non quello di una coabitazione forzata tra la zia Ada, nostalgica rockettara (Marta Lubos), sua nipote Marisa (Daniela Pal) tennista e reduce da una clinica psichiatrica ed infine una misteriosa e labile presenza femminile, Harima (Paula Ransenberg) che parla una lingua incomprensibile e si annida nei luoghi più assurdi di questo spazio comune. Frontalmente, infatti, troviamo la variopinta roulotte adagiata nella nera cavità dell’assito; colorati gli interni, lo sguardo è catapultato negli spazi intimi ed angusti dell’abitazione di Ada, dal bagno alla cucina ad un minuscolo soppalco per dormire. La scena è bidimensionale e statica, al lato sinistro Joaquin Segade accompagna musicalmente le protagoniste che per tutto il tempo (ad eccezione di Marisa che ad un certo punto, slogatesi le spalle, per qualche attimo scompare) sostano all’interno della roulotte. All’inizio Marisa arriva presso il caravan di zia Ada e la difficoltà con la quale vi entra e il successivo balordo spaesamento fa si che il punto di vista del pubblico coincida col suo, e tale focalizzazione è causa di ilarità e curiosità negli astanti.

Del resto l’intessitura dello spettacolo è data da piccole e buffe azioni quotidiane che vengono eseguite nel vano tentativo di un dialogo. Se infatti Harimi sembra agire clandestinamente nascondendosi nelle credenze oppure stando sul tetto, Marisa cerca con molte difficoltà di avere un feedback dalla vecchia Ada, confinata in una sorta di pungente autismo, imprigionata nel passato di cantante rock. Le note di regia suggeriscono una roulotte sperduta in mezzo al nulla per cui persino le dimensioni spazio-temporali sono vaghe e la lingua inventata con la quale Harimi si esprime, conferiscono a tutto il lavoro una nota favolistica. Ma il leggero habitus racchiude una drammaticità di contenuti che va dalla perdita dei genitori di Marisa alla successiva patologia psichica in quanto vede presenze defunte e all’incapacità di creare solidarietà fra tre solitudini. Proprio l’incapacità d’istaurare una rete umana diviene assioma del lavoro di Timbre 4 e si definisce in una sorta di correlativo oggettivo per il quale gli oggetti stessi sono simboli del tentativo di comunicazione. E difatti ai motivi (colori, elementi) della cultura nomade che costellano questo allestimento, si affiancano quelli della quotidianità globalizzata: il telefono, il pc e skype, unico canale con il quale Harimi può comunicare con un figlio lontano.

Nato da un processo laboratoriale basato su un’osservazione di una vita solitaria, questo spettacolo si sviluppa su un’antitesi: l’interazione fisico-spaziale di tre monadi in cui si è cercato di contenere l’essenza di un’umanità socialmente e topograficamente emarginata ed alienata, effettivamente sfuggente anche al pubblico; solo alla fine, infatti, riusciamo a mettere insieme i pezzi, aiutandoci con le didascalie del foglio di sala sul quale leggiamo del background delle singole protagoniste.

Si è concluso così il 28 giugno scorso l’edizione 2015 del Napoli Teatro Festival. Iniziato a ridosso di vicissitudini politiche quali le dimissioni dell’ex direttore De Fusco e il conseguente commissariamento, esso ci ha dato un esaustivo quadro della concezione teatrale del nostro paese. Davvero esigui gli spettacoli di alto calibro sebbene abbiano in ogni caso consentito di conoscere realtà interessanti; quanto al resto, molti si sono attestati ad un livello insufficiente per un cartellone da festival che vuol vantare un interesse internazionale.

Una piccola nota va fatta per il Fringe in cui non è emersa una situazione florida circa la nuova drammaturgia under 35, come ci si aspettava, e in cui si sono ripresentati schemi e temi di gran lunga consumati.

Infine, vorremmo salutare definitivamente questa edizione con un quesito che reputiamo fra i più importanti ovvero a quale pubblico ha giovato la manifestazione, ormai fra le più importanti della città di Napoli? Il costo dei biglietti, le agevolazioni per la fascia under 25, la logistica dei siti interessati all’evento ha, come spesso accade, “celebrato” il Teatro come una pratica, uno svago ed un luogo solo per pochi. L’impressione complessiva è un senso di gerarchizzazione della cultura che sta attraversando la città, escludendo ogni eventuale invischiamento e confronto con la varietas della società partenopea e negandosi la possibilità di contribuire alla valorizzazione di realtà fisiche e non.

Ad ogni modo si conclude un anno particolarmente concitato per il teatro in Italia. Dopo l’estate attendiamo l’apertura di un nuovo capitolo.

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