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Virgilio brucia

fotoDi Simone Derai, Patrizia Vercesi
Con Marco Menegoni, Gayanée Movsisyan, Massimiliano Briarava, Moreno Callegari, Marta Kolega, Gloria Lindeman, Paola Dallan, Monica Tonietto, Artemio Tosello, Emanuela Guizzon
E con la partecipazione straordinaria di Marco Cavalcoli
Video Concept: Simone Derai, Moreno Callegari, Giulio Favotto
Direzione della fotografia: Giulio Favotto / OTIUM
Editing: Simone Derai
Sound design: Mauro Martinuz
Regia: Simone Derai
Costumi: Serena Bussolaro, Simone Derai
Accessori: Silvia Bragagnolo
Maschera di Ottaviano Augusto: Felice Calchi
Scene: Simone Derai, Luisa Fabris, Guerrino Perosin
Musiche: Mauro Martinuz
Arrangiamenti musiche tradizionali, composizioni vocali originali e conduzione corale: Paola Dallan, Gloria Lindeman, Marta Kolega, Gayanée Movsisyan 
Byzantine chant e Kliros tratti da ‘Funeral Canticle’ di John Tavener
Beats: Gino Pillon
Traduzione e consulenza linguistica: Patrizia Vercesi
Testi ispirati dalle opere di Publio Virgilio Marone, Hermann Broch, Emmanuel Carrère, Danilo Kiš, Alessandro Barchiesi, Alessandro Fo, Joyce Carol Oates 
Organizzazione: Marco Menegoni per Anagoor, Laura Marinelli e Stefania Santoni per Centrale Fies
Produzione: Anagoor 2014 in coproduzione con Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies, Operaestate Festival Veneto, University of Zagreb-Student Centre in Zagreb-Culture of Change
Anagoor è parte di Fies Factory e APAP-Performing Europe

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Non è mai semplice scrivere di spettacoli teatrali, molto meno per un teatro quale quello proposto dalla compagnia veneta Anagoor, costituitasi nel 2000 a Castelfranco Veneto. La conosciamo con due allestimenti presenti nell’appena conclusa edizione del Napoli Teatro Festival, convinti ormai che la qualità degli spettacoli italiani sia stata quasi scarsa.

La sera successiva a L.I. Lingua imperii, assistiamo a Virgilio brucia che pone al centro la figura di Publio Virgilio Marone nel suo rapporto col potere augusteo e la scrittura del poema epico l’Eneide. Preambolo della drammaturgia di Simone Derai e di Patrizia Vercesi è l’estrema volontà del poeta mantovano e cioè che in caso di morte improvvisa (come poi avvenne a Brindisi nel 19 a.c.) tutte le carte recanti il testo dell’opera sarebbero dovute esser bruciate. Da qui il problema cruciale che sottende un dissidio interiore e drammatico nel poeta ufficiale e laureato per antonomasia della letteratura.

Simone Derai, dunque, divide il suo spettacolo in capitoli; il primo reca proprio il nome Proemio – La morte di Virgilio; sull’assito lungo e non profondo dell’Auditorium di Sant’Elmo dei microfoni sono posti sulla sezione centrale del palco, in corrispondenza con uno schermo ed un fondo geometrico. La scena nel suo insieme è avvolta nell’essenziale biancore della sua struttura nuda, ci sono panche lignee ove delle attrici si seggono. L’improvvisa scomparsa del poeta diviene così il proemio di Virgilio brucia che accenna all’episodio – per ora solamente narrato – della lettura che lo stesso Virgilio eseguì dei libri II e VI alla corte di Ottaviano. Una scelta cruciale, specialmente la lettura del II libro che mette in luce, contrariamente all’epica omerica, non il trionfo, ma i presupposti (assedio e carneficina di Troia) della diaspora di Enea e i suoi, non parte degli oppressori greci, ma degli oppressi Troiani. L’idea dalla quale partiamo è la frattura di fondo fra ufficialità e contenuto profondo dell’opera nella quale la fondazione della futura civiltà romana segue ad un doloroso esilio e a delle sofferenze insostenibili. Ed ecco che si apre un secondo capitolo Proemio – Le sofferenze dell’impero che ci cala in una dimensione didattico-pedagogica: sullo schermo sono proiettate le immagini di una scuola, di una classe in cui presumibilmente un docente sta spiegando agli alunni ciò che noi ascoltiamo dalla voce. La discussione rivendica un approccio altro nei confronti dell’epica occidentale attraverso una decostruzione delle nostre strutture consolidate esclusivamente sulla base delle nostre tradizioni, proponendo invece una decentralizzazione culturale. Si parte stavolta da Ghosh, romanziere indiano, dal subcolonialismo indiano per approdare – mediante una visione innovativa e comparativa che implica il confronto con storia e letteratura non occidentali – al background sociopolitico dell’Eneide. Era tempo in cui Augusto aveva dato avvio ad un programma di colonizzazione forzata, nonché a logistici flussi migratori di milioni di schiavi, per conferire stabilità all’Impero che si stava consolidando. Ecco che il tema della “diaspora” politica, rivisto in maniera diacronica e diatopica, va irrimediabilmente a cozzare con l’ideologia ufficiale augustea che vuole Enea come eroe indiscutibilmente pius, quello stesso eroe che nel IV libro al Vivamus dell’amore di Didone è costretto a rinunciare per la ragione politica, lasciando trapelare una contraddizione che genera un ulteriore esilio della propria coscienza. Tali riflessioni sono trasformati in concepts della sequenza video, enucleati secondo un habitus didattico che veicola l’ardua destrutturazione. Segue la parte Il mio nome è dolore attraverso il quale il lutto della morte del poeta viene narrata da un amico, fornendo un ulteriore punto, se vogliamo, estraniante ma coerente da un punto di vista della composizione formale scelta. Non a caso, proprio a metà dell’opera è collocato il capitolo Ecloga – Homo poeticus in cui elementi bucolici e georgici si sovrappongono ricreando sulla scena un ambiente pastorale; dalla platea una donna sale sul palco leggendo un libro, poi progressivamente dalla sala uomini e donne recanti vini e arnie antiche per l’apicoltura; si brucia incenso il cui odore, assommato al rumore del ronzio delle api, si propaga fra le file del pubblico. La “straziante mitezza del mondo naturale” che Virgilio cantò nelle Bucoliche, è eco dell’esperienza di esproprio che lo stesso poeta subì successivamente alla battaglia di Filippi, a vantaggio dei mercenari combattenti ed è in quest’ottica che proviamo a sviluppare una lettura delle scene che si susseguono. L’attrice legge in lingua armena, accompagnata da canti di quelli che similmente scandivano riti e tragedie del mondo classico, una sorta di vademecum per l’homo poeticus, uomo che crea dal magma e dal caos, voce che grida nell’eterno deserto d’esilio della Storia e che squarcia con la sua solitaria sofferenza, nella mai appagata ricerca di una verità senza dogmi. Vien dietro a me e lascia dir le gentiil Virgilio dantesco riaffiora come assolo nella Storia.

Il mélo – le note di Kliros del compositore inglese John Taverner – accompagna una nuova sequenza video del capitolo strettamente connesso a quello precedente, Libro VI – Discesa nel regno dei morti assimilato a contrario al concetto di bugonìa, episodio che nelle Georgiche contiene a mo’ di epillio, il mito di un’altra discesa negli inferi, quella di Orfeo ed Euridice. Immagini di animali d’allevamento partorienti e uova in cui hanno origine altri animaletti sfilano sullo schermo in un estetizzante processo metaforico e visivo, avvolto da un pasoliano fatalismo in cui il tema della morte è rapportato all’odierna distruzione del mondo agricolo e pastorale. Lo scompiglio del ceto contadino del I secolo a.C. avviene con il consolidamento del potere di Augusto, qui drammaturgicamente reso attraverso il quadro successivo, Res Gestae Divi Augusti in cui si recitano passi dell’opera omonima che sintetizza l’acquisizione del potere assoluto da parte di Ottaviano con quello privato. Tre donne sulla scena vestono con la tunica imperiale il signore assoluto del nuovo impero, cingendo con la relativa maschera dorata il volto dell’attore. Il quadro che si costituisce è quello della corte augustea in cui i consanguinei di Augusto sono disposti intorno a lui, immobili e al centro di tutto il lungo assito. Siamo preparati all’ultimo capitolo: Libro II – Ilio Brucia. Ed ecco che per oltre 40 minuti, Marco Menengoni, nelle vesti di Virgilio si avvicina al microfono, rivolto verso la famiglia imperiale. Ecco la mimesi della lettura che il poeta offrì della sua opera, incipit di tutto quanto il lavoro teatrale di Anagoor. Sia chiaro, la voce di Menengoni è in realtà quella di Enea che si fa carico del dissidio politico ed artistico del suo Auctor. Solo in questo senso, solo assaporando il libro II badando alla parte dei vinti nella Storia, ponendo in discussione ogni possibile dogma sulla figura virgiliana come di ogni vate letterario e civile, possiamo cogliere la preziosa operazione della compagnia veneta. La declamazione dei 1198 versi in latino classico, a memoria, osservante la metrica dell’esametro, di Marco Menengoni meriterebbe una recensione a parte; non è solo il risultato tecnico a sorprenderci, oltre alla capacità mnemonica del suo lavoro, quanto la lucida consapevolezza dell’estrema drammaticità di ogni verso che ci restituisce una Ilio assediata e perpetua in ogni epoca storica. Non vola una mosca nell’Auditorium napoletano, ognuno interiorizza il tormento mai assentatosi neppure dal nostro presente o dalla storia recente, dell’esilio e della morte, altra faccia di una Storia incrostata nella propria ufficialità. Canti accompagnano il momento della morte di Priamo, lo strazio di quella di Creùsa s’insinua nella voce di Menengoni. I versi si esauriscono e le luci, in un assoluto silenzio pregno di emozioni, molto lentamente calano sulla scena.

Al di là dei contenuti, alti e complessi, ciò che colpisce di Anagoor è una levigatissima ricercatezza estetica congiunta a quella della musica, dell’esecuzione recitativa e canora di tutti gli interpreti che sostano sulla scena. Il biancore ne avvolge l’essenzialità, è la ricerca di uno spazio visivo ed uditivo, possibilmente vuoto, afferente al mondo bucolico già latore di fratture sociopolitiche e tormenti sui quali si è sviluppato questo nostro occidente. La proposta di un teatro che pone la sua ricerca entro una suggestione rituale e che diviene raffinata esecuzione tra contenuto e prassi formale, non privo di un abito pedagogico, la proposta, dunque, di Anagoor con la quale abbiamo deciso di confrontarci è senza dubbio stata accolta da impressioni disparate e probabilmente avrà suscitato reazioni del tutto opposte. Ma è proprio il continuo processo dialettico inserito dentro l’idea artistica e quello che si crea fra chi vede e chi fa ci consente di guardare ancora al Teatro come luogo di crescita e di messa in discussione permanente.

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