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The Pride

fotoLuca Zingaretti si cimenta, come interprete e regista, in un’opera contemporanea del drammaturgo di nazionalità greco-britannica Alexi Kaye Campbell, su un tema che ha polarizzato il dibattito sociale a cavallo dei due millenni in numerosi paesi occidentali e che in Italia rimane ancora controverso sotto il profilo di tutela giuridica, se non più di accettabilità sociale.

Accolto con successo a Londra al suo debutto nel 2008 e con reazioni diverse nei paesi in cui è stato rappresentato, il testo affronta la problematica dei rapporti omosessuali in due contesti distanti nel tempo, uno ambientato nel 1958 l’altro nel 2015, in cui i piani narrativi si intersecano con i tre personaggi che mantengono lo stesso nome in ruoli diversi, come in una serie di immagini speculari che riflettono il passato sul presente.

Borghese e perbenista il primo: il marito, la moglie, l’altro. Moderno e libertario il secondo: una coppia gay in sofferenza sentimentale, l’amica-confidente.

Afferma Kaye “Ho accostato due vicende per approfondire quanto il passato influenzi il presente, e se prima aleggiava più omofobia, ora c’è una mercificazione delle emozioni. Importante è che la cultura circoli, con nuovi scrittori giovani, con scommesse come quella di Zingaretti e del Teatro di Roma, con mediazioni come quella della traduttrice Monica Capuani”.

E a proposito di sfida, Luca Zingaretti sottolinea di aver voluto affrontare la tematica omosessuale, contravvenendo ai consigli di quanti tentavano di dissuaderlo, che fatica a stare al passo con la legislazione dei paesi dell’Unione europea, e di essere stato attratto dagli interrogativi sull’identità dell’individuo che The Pride solleva, oltre ad aver voluto privilegiare un testo attuale, in un panorama teatrale carente di drammaturgia contemporanea.

In un appartamento arredato con lineari mobili svedesi anni ’60, Sylvia, ex attrice reduce da una crisi nervosa, riceve la visita del distinto Oliver di cui illustra un libro per ragazzi, e lo presenta al marito Philip.

Qualche secondo di buio, e le luci si riaccendono su una scena sado-maso in cui Oliver, giornalista gay, è frustato da un militare delle SS, disperato per l’abbandono di Philip, fotoreporter con cui ha convissuto un paio d’anni. Frustrato e infelice, si confida con l’amica comune Sylvia, che tenta di aiutarlo a far emergere dai recessi della psiche le motivazioni profonde di scelte autolesionistiche.

Si procede così, a scene alterne, nell’affiorare di latenti e inconfessate inclinazioni che inducono a mettere in crisi un rapporto coniugale solido e affettuoso, di fronte a scenari imprevisti che svelano aspetti di sé misteriosi e insondabili. Scavando nelle dinamiche di coppia, omo e etero, nella paura dell’abbandono, nell’incapacità di riconoscersi e accettarsi senza l’altro, nella disponibilità ad accogliere un destino non preventivato, nella disponibilità a vivere la fedeltà con tenerezza, nella capacità di perdono.

In questo fluire di sfaccettature emotive e identitarie si svela l’io profondo che pone interrogativi su chi siamo o chi vogliamo essere, cosa siamo capaci di fare per realizzarlo o per nasconderlo (secondo il momento storico in cui si vive) affrontando i cambiamenti di direzione della propria esistenza come delle momentanee patologie.

Tutti bravi nei rapidi passaggi di ruolo e di epoca. Zingaretti porta in scena per la prima volta in Italia questo lavoro, assegnandosi il ruolo di Philip che esprime con asciuttezza ed empatia. Maurizio Lombardi è Oliver, discreto e riservato in un contesto, affranto e dilaniato nell’altro. Valeria Milillo esprime la dolcezza di una moglie capace di amare sempre e comunque, Alex Cendron si immedesima nei diversi ruoli di SS, Peter, il dottore. La scenografia, mutevole nelle diverse ambientazioni, è di Andrè Benaim, illuminata dalle luci di Pasquale Mari, costumi di Chiara Ferrantini, musiche di Arturo Annecchino.

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