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Gabbiano

fotoDi Anton Checov

Con Fausto Russo Alesi, Giovanni Crippa, Ruggero Dondi, Zeno Gabaglio, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Emiliano Masala, Maria Pilar Pérez Aspa, Giorgia Senesi, Anahi Traversi

e con l’amorevole partecipazione di Antonio Ballerio

Scene Margherita Palli

Costumi Margherita Baldoni

Musiche Zeno Gabaglio

Luci Jean-Luc Channonat

Regia Carmelo Rifici

Produzione LuganoInScena

in collaborazione con LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano e Teatro Sociale di Bellinzona

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Approcciarsi oggi a Il Gabbiano, come alle altre opere dell’autore, vuol dire esser pronti a cogliere molti livelli di comunicazione e di significato, sia come artisti che come spettatori. Un’opera a “strati”, che proprio per questo riesce a parlare con acume alla nostra attualità, svelando nodi ancora oggi dolenti del vivere famigliare e sociale. È un continuo gioco di equilibrismo, quello a cui vanno incontro gli attori, dovendo mettere in scena personaggi e rapporti sempre al limite, sotto diversi punti di vista, che molto hanno a che fare con la realtà che viviamo. Rapporti fuori asse, in cui lo sbilanciamento è la cifra fondamentale: ognuno sembra fuori posto, nel desiderare qualcosa che non può avere, nell’idealizzare qualcuno che di ideale ha ben poco, o è soltanto umano, come tutti, nel voler essere ciò che non è.

Ognuno, anche la personalità apparentemente più incrollabile, ha un attimo di svelamento, in cui mostra di fraintendere qualcosa della realtà circostante. E così si delinea una serie di figure mancate, di artisti, di genitori, di uomini e di donne.

Interessanti gli spunti di riflessione sulla figura dell’artista: chi si può definire artista? Chi o che cosa lo definisce tale? Che rapporto ha un artista con la propria arte? Arte come condivisione o come fuga, come sfogo o come creazione?

Se tali riflessioni vi sembrano riservate a una ristretta cerchia di esperti, sappiate che Il Gabbiano apre la strada ad altre questioni: quanto è importante il successo? Cos’è il successo oggi per noi?

Filo conduttore dell’opera e dei suoi personaggi, l’ossessione; in particolare, citando il regista, l’ossessione per la rappresentazione. Personaggi in preda all’ansia e all’incontrollabile necessità di esprimere se stessi, di essere apprezzati, impegnati nell’anelito al riconoscimento, nell’ambito pubblico, laddove non avvenga nel privato, e viceversa. L’insistenza nel creare rappresentazioni di noi stessi e dell’oggetto dei nostri desideri, in un continuo spostamento di immagini.

A questo panorama si sposa bene l’approccio di Rifici, che dà voce al testo con estrema pulizia e cura, affascinando lo spettatore con tocchi poetico visionari, primo fra tutti l’apparizione di Nina, fantasma rosso.

La scelta di tenere quasi sempre tutti gli attori in scena poteva essere portata più a fondo, nell’ottica di creare uno spazio al limite della prova teatrale. L’impostazione minimale dello spazio scenico disegna linee geometriche di persone e strutture, rendendo visibili, anche se minimi, spostamenti fisici e dell’animo.

Rifici prende accorgimenti utili ad attualizzare ancora di più l’opera, facilitandone la fruizione al pubblico degli anni 2000, come nel caso della performance ingenua organizzata dal giovane Kostia, che non si distacca di molto da situazioni artistiche attuali.

Nel complesso questo Gabbiano riesce a dare una visione ampia dei vari piani su cui si sviluppa l’opera e dei livelli su cui Checov parla allo spettatore. Da non dimenticare l’apprezzabile riuscita dei momenti ironici della pièce, che creano un buon contrappunto al procedere della vicenda.

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