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“LA MANDRAGOLA” di Niccolò Machiavelli. Produzione Tieffe Teatro. In scena fino al 3 luglio al TIEFFE Teatro Menotti

Il finale della commedia merita subito un commento. Dobbiamo premettere che la scena curata dal bravissimo Guido Buganza vede come parete di fondo una gigantografia dello “Sposalizio della Vergine” di Raffaello. Quasi a contrapporre la virtù al vizio, o a riscattare le turpi azioni dei personaggi, il regista Claudio Beccari, li posiziona sulla scena in modo tale da apparire (per postura, abiti, espressioni) la copia del quadro stesso. Stupendo. Parliamo de “La Mandragola”, un capolavoro del teatro rinascimentale, spiritoso, intelligente, elegante e irriverente. Una delle più straordinarie commedie di tutti i tempi (almeno a detta di Voltaire).

La storia è nota: un marito un po’ tonto e non più giovanissimo (messer Nicia) ha, come unico desiderio, che la giovane moglie Lucrezia resti incinta. Poiché questo non avviene, il marito si rivolge a Ligurio, un amico (più che altro uno scroccone) che gli consiglia di chiedere a un sedicente dottore arrivato da Parigi (il furbo Callimaco) come risolvere il problema. Il disegno dell’impostore è mirato a ottenere i favori di Lucrezia, la bella moglie di Nicia, di cui si dice perdutamente innamorato. E’ qui che entra in gioco la Mandragola, radice magica e potente. Al marito viene fatto credere che la moglie resterà incinta se accetterà di berne una pozione prestando però attenzione che il primo che godrà i suoi favori sarà destinato, entro pochi giorni, a sicura morte. Messer Nicia cede alle insistenze del “dottore” a condizione che il morituro che andrà a letto con la moglie sia un poveraccio. Così con l’aiuto interessato di fra Timoteo (l’impenitente confessore di Lucrezia) e di Sostrata, la madre di lei, il marito convince la giovane sposa a sottoporsi alla bisogna. Va da sé che il “poveraccio” che dovrà giacere con la donna sarà Callimaco stesso vestito da mendicante. Machiavelli non si smentisce quando, nelle vesti di frà Timoteo, convince Lucrezia che non è peccato l’adulterio purché sia fatto a fin di bene (nel caso specifico di essere ingravidata secondo il volere della….Provvidenza). Il fine insomma, anche in questo caso, giustifica i mezzi.

Così un piccante adulterio fra Callimaco e la “virtuosa” Lucrezia, e la disponibilità prezzolata del frate e di Ligurio si tramuta in una dolente metafora sulla corruzione dei costumi nella Firenze medicea. Ma più che un’accusa – perché da che mondo è mondo la corruzione, il cinismo, l’egoismo sono vizi inemendabili (basta guardare all’oggi) – quella di Machiavelli è un divertissement. I disvalori sono un tema che in ogni epoca vengono condannati e rappresentati in varie declinazioni (in chiave comica o drammatica) appunto perché universali e imperituri.

Certo la boccaccesca trama dell’opera, basata sull’equivoco e sul raggiro, è già di per sé una garanzia di successo che anche questa volta non è mancato grazie all’attenta regia di Claudio Beccari, alla creatività di Guido Buganza, al disegno delle luci di Mario Loprevite, ai costumi di Mariella Visalli, alle musiche belle e funzionali.

E, last but not lest, le splendide interpretazioni  degli attori, da Marco Balbi nella spassosa caratterizzazione del marito beffato e contento, ai bravi Claudio Moneta (Ligurio) e Alberto Giusta (Callimaco) e Gianni Quillico che disegna con grande professionalità frate Timoteo, vero motore dell’azione e punto più alto della satira di Machavelli. Ricordiamo infine Francesca Debri nella parte della “onesta” Lucrezia, Cinzia Missironi in quella di Sostrata più “zia” che madre e di Alberto Faregna, Sirio il servo di Ligurio.

Spettacolo da non perdere.

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