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Jacob Olesen è Bohumil

Un corpo nudo di donna, una peonia, una granita di lampone che schizza via dalle mani, una tavola imbandita. Sono lì davanti agli occhi, eppure in scena non c’è nulla. Solo un grande spazio nero, un uomo in livrea, una valigia, nient’altro. A sprigionarli così vivi, disegnandoli nell’aria con gesti e suoni, è quell’uomo in livrea: accarezza e seduce, pilucca petalo per petalo, sparecchia e rigoverna. Un lavoro di incessante fantasia, quello messo in scena da Jacob Olesen alla Sala Grande del Teatro dell’Orologio di Roma con lo spettacolo “Il mio nome è Bohumil”, liberamente tratto da “Ho servito il re d’Inghilterra” di Bohumil Hrabal, una delle opere più significative del romanziere ceco. E di quel testo Olesen – ben sostenuto dall’evocativa regia di Giovanna Mori, anche co-autrice del testo, assieme a Francesco di Branco e allo stesso attore danese – incarna e restituisce la visionarietà e l’attenzione agli aspetti surreali dell’esistenza, il gusto dell’imprevisto e il non-intellettualismo, tipici del resto dell’intera produzione letteraria dello scrittore.
Bohumil è un cameriere di bassa statura (“il più basso di tutti, piccolo come un piccolo” dice di sé) e umile lignaggio, dotato di innata gentilezza e ingenua ambizione. La sua vicenda si svolge a Praga, dagli anni Trenta alla fine della guerra, nel periodo quindi della belle époque slava prima, dell’occupazione nazista poi. Bohumil un passo alla volta fa carriera, divenendo anche proprietario d’albergo, si arricchisce e prende moglie (e per amore della sua bella nazista, Lisa, ma anche per sincero cosmopolitismo, si fa tedesco e inviso a tutti i suoi connazionali), fino alla rovina provocata dalla guerra, che gli porterà via beni e affetti. Intorno a lui c’è un mondo di incontri: la cameriera Vanda, il maître Scrivaniek (che sarà il suo maestro), la prostituta Vlasta, e poi commessi viaggiatori, imperatori d’Etiopia, sindaci, soldati. Tutti impersonati da Olesen – e questa è una prova di rara efficacia – con uno slittamento di voce, una postura del corpo, un’espressione differente. Un’epica corale, un monologo di dialoghi racchiusi in un corpo solo e in una sola voce: una galleria di personaggi descritti con leggerezza e ironia, registri che l’attore padroneggia con recitazione incalzante, piena di stupore e, nello stesso tempo, di disincanto.
Jacob Olesen, svedese di nascita ma romano d’adozione, artista multi-lingua (ne parla ben sei) e multi-tasking (dalla prosa alla tv, dal cinema alla radio), è noto al pubblico teatrale soprattutto in coppia con Giorgio Donati (la compagnia Donati-Olesen ha appena festeggiato i trent’anni di carriera), con cui ha realizzato decine di spettacoli portati in scena in tutto il mondo. Stavolta si sperimenta in solitaria, e l’operazione è senz’altro riuscita. Il tono bislacco e immaginifico dell’opera – anche se non mancano momenti più intimi e pensosi – ben si adatta alle sue capacità espressive: il corpo si disarticola e ricompone, il viso offre continue mutazioni, la bocca è un profluvio di rumori e parole. “Ci aspetta sempre qualcosa di sorprendente” dice Bohumil alla fine, incrollabile in quella sua fiducia nel domani, a dispetto di tutti gli eventi. Sorprendente, e di una sorpresa davvero piacevole, come è stato questo spettacolo.

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