Jacob Von Gunten è un giovane di buona famiglia che rinuncia ai suoi agi per iscriversi alla all’Istituto per domestici Benjamenta: ben presto però si rende conto che non vi si insegna apparentemente nulla di concreto, che le lezioni sono ripetitive fino a diventare ossessive e che gli insegnanti sono del tutto assenti. Che cosa sta imparando davvero Jacob? Al Teatro India di Roma è in scena (fino a domenica 17 giugno) Jacob Von Gunten, commedia tratta dall’omonimo romanzo di formazione del 1909 di Robert Walser, interessante scrittore svizzero del Novecento. Il romanzo in realtà cela in sé qualcosa di autobiografico dato che lo stesso Walser si iscrisse a ventisette anni a un corso per diventare servitore e che dopo fu effettivamente assunto come cameriere nel castello di Dambrau in Alta Slesia. La trasposizione teatrale del testo appare di per sé molto rischiosa, ma Lisa Ferlazzo Natoli sceglie una regia di sapore contemporaneo, quasi concettuale, arrivando quasi a de-strutturare il testo, a ridurre gli attori come marionette, andandone a scardinare quasi la fisicità dalla parola. Jacob (che ha il volto spigoloso e quasi infantile di Andrea Bosca), è intemperante, ma estremamente intuitivo: si avvicina a Lisa (Monica Piseddu), la sorella del direttore, il violento Benjamenta (Alberto Astorri) ed entra in conflitto con Kraus (Emiliano Masala) suo compagno, prototipo del servo perfetto. Subito viene fagocitato in un tempo indeterminato, di sospensione, a contatto con gli altri bizzarri individui cercando, forse invano, il senso della vita. E se ogni personaggio riprende un modello comportamentale nella società per rappresentare una realtà quasi nascosta, ecco allora che tutti i monologhi e i dialoghi vengono vicendevolmente ascoltati o amplificati, posti su piani e luoghi (anche concreti) diversi. Anche gli attori vengono continuamente dislocati a piacere nelle scene scarne di Fabiana Di Marco (suoi anche i costumi d’inizio Novecento) che tra armadi, sedie o manichini, ricreano gli spazi irreali della scuola Benjamenta sfruttando il magnifico spazio del palco dell’India, nella sua impressionante profondità e gettando subito lo spettatore nel cuore del testo. Lo spettacolo resta sempre evocativo e mai banale nel tentativo, alquanto riuscito, di lasciar trasparire come oggettivi gli elementi soggettivi del romanzo-diario, lavorando soprattutto sul senso della parola. L’atmosfera che pervade la sale è fin da subito enigmatica, quasi onirica, irreale e gli spettatori ne restano forzatamente avviluppati in una sorta di magico incantesimo. Non è poco riuscire a risolvere brillantemente in meno di un’ora e mezza l’iter emozionale di Jacob alle prese con la vita, in un testo straordinariamente ancora attuale, sul senso della vita stessa e dell’identità.