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John Cage e l’Indonesia

Così lontani così vicini, questo potremmo dire di John Cage e la musica (e la danza) tradizionale dell’Indonesia. Due mondi in apparenza distanti, ma in realtà una finzione, e non solo per l’interesse che il grande compositore americano sviluppò nella metà degli anni quaranta per le filosofie orientali. A metterli assieme è stato lo spettacolo “In the game of land”, andato in scena giovedì 14 giugno all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Un’operazione (anzitutto culturale) perfettamente riuscita, che ha visto nella medesima serata l’esecuzione di un’opera per due pianoforti di John Cage (di cui quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita e i venti dalla sua scomparsa) e la scoperta dell’arte del “gamelan” indonesiano (ossia l’orchestra tradizionale di quelle isole, composta di strumenti a percussione come metallofoni, xilofoni, tamburi e gong).

“A book of music”, questo il titolo della partitura scritta da Cage nel 1944 per due pianoforti “preparati”, nelle corde dei quali cioè vengono inseriti vari oggetti (come piastre di ferro o guarnizioni di gomma) allo scopo di modificarne il timbro. E il risultato sono suoni sordi, o metallici, che sembrano provenire da un’orchestra di percussioni (che richiama appunto l’impatto sonoro del “gamelan”). Un esito del tutto inaspettato, dal forte coinvolgimento emotivo. La partitura di Cage – articolata, come spiega il musicologo Renato Bossa, in “varie sottosezioni, nelle quali si fa grande uso di scale, arpeggi, note ribattute e figurazioni nel complesso molto virtuosistiche” – è stata eseguita con maestria da Lucio Perotti e Francesco Carlo Leone, entrambi del Parco della Musica Contemporanea Ensemble.

L’opera di Cage è stata preceduta e seguita da diversi interpretazioni di musica e danza del “gamelan” indonesiano della scuola di Yogyakarta (centro della cultura e dell’arte giavanese). I 13 elementi dell’orchestra hanno eseguito composizioni musicali, melodie e canti, presi sia dal repertorio tradizionale sia da quello contemporaneo. I momenti più suggestivi sono stati quelli delle due danze (a opera di altri dieci elementi): la prima (denominata Serimpi Sekar Palagan) messa in scena da quattro ballerine, la seconda (più lunga e complessa) relativa a un episodio del Ramayana, il secondo grande poema epico dell’induismo, che narra le vicende del sovrano Rama e della sua sposa Sita. Particolarmente apprezzata è stata quest’ultima (che ha concluso la serata), anche per la bellezza e i colori di maschere e costumi: una danza concentrata sulla composizione di figure e di simboli, fatta di movimenti armoniosi e stilizzati, torsioni delle mani e dei polsi, articolati movimenti delle dita e delle gambe, che ha saputo trasmettere agli spettatori la ricchezza spirituale (e quasi ipnotica) di quella cultura.

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