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Moscheta di Ruzante

Foto di Marcello Norberth

con Tullio Solenghi, Maurizio Lastrico, Barbara Moselli, Enzo Paci

adattamento a cura di Gianfranco De Bosio

scena e costumi Guido Fiorato

musica Andrea Nicolini

luci di Sandro Sussi

regia Marco Sciaccaluga

Moscheta, un classico del teatro italiano, scritto presumibilmente alla fine degli anni Venti del Cinquecento da Ruzante, torna in scena con due protagonisti della comicità contemporanea: Tullio Solenghi (Ruzante) e Maurizio Lastrico (Menato), con Barbara Moselli (Betìa) ed Enzo Paci (Tonin). Per Solenghi è un felice ritorno al teatro Stabile di Genova, dove debuttò nella stagione 1970-71 con Madre Courage di B.Brecht a fianco di Lina Volonghi: “Sono ritornato a lavorare con lo Stabile di Genova che mi ha lanciato, dopo oltre trenta anni. Credo che il teatro a gestione pubblica abbia il diritto e il dovere di riscoprire la grande drammaturgia italiana”.

Moschetaaffronta temi di grande attualità (sullo sfondo c’è la guerra tra spagnoli e francesi per il controllo del territorio) e situazioni sessualmente esplicite (il triangolo di maschi che ruota intorno a Betìa), con una libertà e una forza inventiva paragonabili solo a quelle della quasi contemporanea Mandragola di Machiavelli.

Il più grande autore di teatro che l’Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell’avvento di Shakespeare – così nel 1997 Dario Fo ringraziò Ruzante dedicandogli il suo premio Nobel per la Letteratura – il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia, la disperazione della gente comune, l’ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia. E soprattutto avevano un difetto tremendo: raccontavano queste cose facendo ridere. Il riso non piace al potere. Ruzante poi, vero padre dei comici dell’Arte, si costruì una lingua, un lessico del tutto teatrale, composto di idiomi diversi; dialetti della Padania, espressioni latine, spagnole, perfino tedesche, miste a suoni onomatopeici completamente inventati. Da lui, dal Beolco Ruzante ho imparato a liberarmi della scrittura letteraria convenzionale e ad esprimermi con parole da masticare, con suoni inconsueti, ritmiche e respiri diversi, fino agli sproloqui folli del grammelot.”

Moscheta racconta con originalissima comicità un mondo contadino rozzo e sensuale (dove si parla il dialetto padano), comunque migliore di quello affettato e ingannatore della città, nella quale trionfa la lingua “moscheta” che appartiene ai furbi e agli imbroglioni. Il linguaggio ora dialettale e ora “moscheto”, dello scrittore e attore padovano, in questa nuova messa in scena firmata da Marco Sciaccaluga risulta perfettamente fruibile anche per gli spettatori di oggi, attraverso il discreto e amorevole “adattamento” di Gianfranco De Bosio, cui si deve sin dagli anni Cinquanta la riscoperta di Ruzante sui palcoscenici italiani.

La commedia affronta temi e situazioni sessualmente scabrose, disegnando però all’interno di queste, con meravigliosa evidenza comica, comportamenti e psicologie di personaggi indimenticabili: in virtù delle invenzioni drammaturgiche di Angelo Beolco e della vitalità teatrale della sua personalissima scrittura dialettale, che trascende nella creazione artistica sia i modelli tradizionali derivanti da Plauto, sia il semplice gioco farsesco della nascente Commedia dell’Arte.

Un travolgente gioco di bravate e di vendette coinvolge i tre uomini nel tentativo di conquistare, ciascuno a modo suo (anche con lo scorrere di denaro), la bella Betìa, la quale comunque non si fa scrupolo di trascorrere in allegria dalle braccia del ruvido Tonin al letto del furbo Menato, riuscendo infine a tenersi a casa anche il marito Ruzante.

Ruzante è come i personaggi di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno: è il contadino stupido, ma anche un ladro astuto, è ignorante ma furbo, è ritardato ma scaltro. È un personaggio fantastico, perché quando sembra furbo è stupido e viceversa.

È veramente sorprendente quanto i personaggi di Moscheta assomiglino agli italiani, di ieri e di oggi – dice il regista Marco Sciaccaluga – Ruzante mette in commedia l’italianità del suo tempo, e anticipa così Age e Scarpelli, Dino Risi e Mario Monicelli, saldando una cesura di quasi quattro secoli che, passata attraverso la grande esperienza goldoniana, ritroverà infine tutta la sua freschezza e genuinità, oltre che la sua salutare cattiveria.”

Per informazioni, www.fondazioneteatrodellapergola.it

Orario spettacoli: dal martedì al sabato: ore 20.45, domenica: ore 15.45.

Prezzi biglietti interi: Platea: € 27 + € 3 (diritto di prevendita) € 30, Posto Palco: € 20+ € 2 (diritto di prevendita) € 22, Galleria: € 13,00 + € 2 (diritto di prevendita) € 15

 

Una commedia all’italiana di cinquecento anni fa.

Conversazione con Marco Sciaccaluga

Il titolo Moscheta è quanto meno curioso perché pone subito l’accento sul linguaggio (parlar “moscheto” contrapposto all’uso “naturale” del dialetto) quasi a significare che lì sta la prima chiave di lettura della commedia.

Il dialetto pavano è per Ruzante una lingua totalmente ispiratrice, nella quale le emozioni umane si definiscono con una forza pregnante che raramente è dato riscontrare a teatro; ma, nello stesso tempo, proprio quella lingua è stata a lungo un grande ostacolo alla sua comprensione, con il risultato che per secoli Ruzante è stato bandito dal repertorio teatrale nazionale, sino a che i francesi negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, traducendolo, si sono resi conto della grandezza oggettiva di quel teatro e hanno indirettamente stimolato anche gli italiani, con in prima fila Ludovico Zorzi e Gianfranco De Bosio, ai quali va riconosciuto il merito di aver riportato Ruzante sui palcoscenici nazionali sin dai primissimi anni Cinquanta.

Qual è l’attualità del teatro di Ruzante?

In Ruzante, lo spettatore si trova di fronte a dei personaggi arcaici, che hanno più la genuinità dei

prototipi esistenziali e sociali, che la funzione ripetitiva delle maschere della seguente Commedia dell’Arte. Ruzante, Menato, Tonin e Betìa, cioè tutti i personaggi di Moscheta, ci pongono davanti a un teatro insieme raffinato e primitivo che ricorda quello della Grecia classica, essendo personaggi che sembrano provare per la prima volta al mondo certe emozioni. In Moscheta, predominano le emozioni dell’amore, della gelosia, del tradimento; ma l’emozione in genere è il centro e il motore di tutte le commedie di Ruzante: si pensi, ad esempio, alla sua importanza anche in Bilora o nel Parlamento.

Ruzante, Betìa e Menato, per altra via anche Tonin, sono contadini inurbati: questa dimensione storico-sociale trova una risonanza nello spettacolo?

L’azione di Moscheta si svolge in un borgo di Padova, che con Guido Fiorato abbiamo scelto d’interpretare come una specie di bidonville, simile a quelle in cui, in ogni epoca socialmente e politicamente dinamica e di trasformazione, finiscono sempre con l’andare ad abitare le classi subalterne. Per raccontare la storia di tre uomini (Ruzante, Menato, Tonin) che ruotano intorno all’attrazione sessuale di una donna (Betìa), abbiamo quindi ambientata l’azione in una specie di accampamento, che suggerisce l’idea di persone che hanno abbandonato il lavoro dei campi per andare in cerca di lavoro in una situazione d’instabilità. Questa immigrazione dalla campagna alla città, che ha avuto nel Cinquecento una sua prima manifestazione, si è poi ripresentata molte volte nel corso della storia d’Italia. Il protagonista di Moscheta è Ruzante le cui radici affondano nella tradizione plautina del contadino sciocco e beffato. Ruzante è come i personaggi di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno: è il contadino stupido, ma anche un ladro astuto, è ignorante ma furbo, è ritardato ma scaltro. È un personaggio fantastico, perché quando sembra furbo è stupido e viceversa. È veramente sorprendente quanto i personaggi di Moscheta assomigliano agli italiani, di ieri e di oggi.

Tutta l’azione ruota intorno a Betìa, la quale sembra essere contemporaneamente oggetto di desiderio maschilista e soggetto che meglio degli altri sa governare la storia.

Betìa è la donna secondo Ruzante. È un personaggio meraviglioso, insieme superficiale e complesso, impudico e dolente. La prima cosa che si nota leggendo il testo è che a lei, a differenza dei personaggi maschili, è negato il diritto di parola con il pubblico.

Perché? Nel meraviglioso teatro arcaico chiamato in causa da Moscheta, i personaggi hanno continuamente bisogno di confrontarsi con il pubblico, per farsi aiutare nella comprensione di sé e del mondo. Da questo punto di vista i monologhi di Ruzante e di Menato sono emblematici. Ma lo sono anche quelli di Tonin, il quale si rivolge direttamente allo spettatore per trarne consiglio o conforto. Betìa mai; le è permesso parlare solo con i suoi interlocutori maschi. In un certo senso

è loro prigioniera. È un essere umano considerato socialmente inferiore: non a caso continuamente paragonato agli animali.

Qual è il tono con cui questa storia viene raccontata?

Proprio come accadrà nel cinema con la migliore “commedia all’italiana”, in Moscheta non si ha mai la sensazione di trovarsi davanti a un fatto di cronaca, a un “fait divers”, ma è chiarissimo che si sta parlando di un comportamento socialmente diffuso. Ruzante mette in commedia l’italianità del suo tempo, e anticipa così Age e Scarpelli, Dino Risi e Mario Monicelli, saldando una cesura di quasi quattro secoli che, passata attraverso la grande esperienza goldoniana, ritroverà infine tutta la sua freschezza e genuinità, anche la sua salutare cattiveria.

Alla fine, chi vince è Menato?

Il progetto di Menato è terribile: per riconquistare Betìa espone il marito a fare una delle sue proverbiali figuracce, ma ottenuto lo scopo restituisce la moglie a Ruzante, nella convinzione di poter tornare quando vuole a fare il suo comodo. Menato vince nella misura in cui riempie di botte i due rivali, e si porta in casa la femmina. È la legge del più forte. Il finale di Moscheta è estremamente violento: sia dal punto di vista delle emozioni che provano i personaggi, sia per quello che accade sulla scena. Pur in un testo che è esplicitamente attraversato dal comico (e io non faccio nulla per nasconderlo), il finale è al quanto desolato e desolante: se questa è l’interpretazione di Ruzante dell’happy end caro alla commedia, si può ben dire che ci sono modi più gioiosi per concludere “e vissero tutti felici e contenti”.

In questo trionfo della legge del più forte, c’è l’immagine di un’umanità che anche nello splendore del Rinascimento è rimasta allo stato animale…

Ma come invitava a fare Montaigne, anche Ruzante continua a “cercare l’uomo negli altri, in tutti gli altri anche quando sospetta con buona ragione di vedersi davanti solo dei grufolanti animali”. E questa ricerca si traduce in un vitalismo che, nonostante tutto, crea allegria.

( a cura di Aldo Viganò)

Paola Pace – Ufficio Stampa Teatro della Pergola

Tel. 055 2264347 – stampa@teatrodellapergola.com

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