venerdì, Marzo 29, 2024

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Durante la mia collaborazione trimestrale con Teatrionline come inviato da Parigi, mi piacerebbe uscire dal classico schema spettacolo-recensione, e specialmente della recensione del trinomio grande teatro/regista famoso/testo classico, che a volte tende a impallare tutto un paesaggio teatrale. Naturalmente i compte rendus dei singoli spettacoli saranno la carne dell’articolo, e non mancheranno quelli dedicati al trinomio dominante. Vorrei tuttavia provare, nel limite del possibile, a dare un quadro globale dei teatri parigini, perdermi in qualche approfondimento diacronico, passeggiare dalle sfarzose sale ottocentesche ai sottoscala.  Comincerò da qualche statistica.

Prendiamo quindi Pariscope, la guida degli spettacoli parigini (teatri, cinema, concerti) in vendita in edicola a quaranta centesimi, e leggiamo. L’almanacco ci dice che attualmente a Parigi intra muros ci sono 175 teatri, 194 compresa la banlieue, 203 compresi i cabaret e le cene-spettacolo. Aggiungiamo che alcuni di questi teatri mettono in scena due, tre e persino quattordici spettacoli (al Théâtre du Nord-Ouest, ci andremo dopo), e apparirà chiaro che siamo di fronte a una vera e propria industria. Su cosa si regge? Statistiche più precise le lascio per il prossimo numero, ma a occhio direi che una prima grossa fetta di mercato è formata da commedie con stelle del cinema o delle tv, one-man show, adattamenti di film, di biografie, di classici della letteratura e di romanzi recenti. Non bisogna tuttavia generalizzare. Basti pensare che uno dei più grandi successi di questo autunno-inverno, per certi versi sorprendente vista la qualità di cantanti e musicisti, la scenografia di carta pesta e l’acustica da teatro di prosa, è stato Lo Speziale di Haydn, su libretto di Goldoni. Due grandi nomi e la curiosità di vedere quest’opera pochissimo rappresentata è stata più forte di tutto.

Ma concentriamoci su un’altra grossa fetta di mercato, formata da spettacoli che un pubblico italiano, conosce meglio: i classici del cosiddetto teatro di prosa. Li ho divisi in tre categorie. Nella prima ci sono i grandi classici dal Rinascimento al 1870 e alla cesura del naturalismo; nella seconda, i classici della modernità, ossia, grosso modo, dal 1870 al 1970; nella terza, gli autori rivelatosi dal 1970 a oggi, ancora vivi o morti da poco. Ho escluso le adattazioni di romanzi e poesie, segnalato le riletture «radicali» e quando un teatro ha in cartellone più opere di uno stesso autore. Trattandosi di un ciclo, ossia un evento per certi versi eccezionale, influisce sulla statistica.

Ecco, per numero di rappresentazioni, gli autori appartenenti alla prima categoria: Molière (17, di cui sei in un teatro e una rilettura), Shakespeare (8, di cui una rilettura), Marivaux (3), Goldoni (2), Racine (2, di cui una rilettura), Hugo (1), Musset (1).

Seconda categoria: Sartre (6, due in un solo teatro), Ionesco (5, sempre molto amato in Francia, forse più dal pubblico che dagli universitari), Feydeau (4, Ormai modello storico del vaudeville, a scapito di Scribe, Labiche o Courteline), Cechov (3), Claudel (2), Lorca (2), Rostand (2, naturalmente due Cyrano), Wilde (2), Audiberti (1), Beckett (1), Brecht (1), Cocteau (1), Duras (1), Giraudoux (1), Ibsen (1), Synge (1).

La terza categoria è la meno rappresentata. Anche se mi sono limitato ai più famosi, certi autori francesi forse non vi diranno molto: Pinter (3), Handke (2, nello stesso teatro), Bergman (1), Horovitz (1), Koltès (1), Lagarce (1), Melquiot (1), Minyana (1), Noren (1), Pommerat (1), Ribes (1), Schmitt (Eric Emmanuel, 1). Direi che a parte a parte alcuni autori francesi contemporanei e qualche idiosincrasia nazionale (più Molière che Shakespeare, più Sartre che Pirandello) i nomi sono quelli che circolano in Italia. Bisognerebbe poi considerare dove questi autori sono rappresentati, se in teatri importanti o di seconda fascia e terza fascia, ma ml momento mi fermerei qui e tornerei nel prossimo articolo su questi e altri numeri. Ora iniziamo la nostra passeggiata.

 

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Cominciamo dall’est, dal Théâtre de la Colline, tipico esempio del tentativo di decentralizzazione che angustia la società francese, sempre impigliata in un rapporto di amore-odio con Parigi e i suoi arrondissements centrali. Il Théâtre de la Colline sorge dietro il Père Lachaîse. Insieme alla Comédie Française, all’Odéon, al Théâtre de Chaillot e al TNS di Strasburgo è il quinto teatro nazionale di Francia. Fu inaugurato nel 1988, nel pieno del regno di Jack Lang al ministero della cultura, per dimostrare come lo stato volesse impiantare il teatro anche nei quartieri dell’est, tradizionalmente più operai e meno forniti di teatri. Dal 2010 lo dirige Stéphane Braunschweig, che da buon alsaziano ha tentato una sintesi con la cultura tedesca. Per cui si sono moltiplicati gli esperimenti più o meno felici di scrittura scenica e Konzept Inszenierung. Tra i vantaggi di questa linea culturale c’è quello di aver portato a Parigi autori del nord Europa, tra cui Anja Hilling, classe 1975, e il suo Tristesse animal noir.

Gli horror americani ce lo hanno insegnato: quando gli esecrabili rappresentanti della nostra società consumista si addentrano in un bosco, per loro si preparano grossi guai. Negli horror solitamente è qualche montanaro irradiato a incaricarsi di portare la nemesi; in Tristesse animal noir è il fuoco, secondo la tradizione tedesca più inquietante, a incaricarsi di distruggere le vite dei campioni del declino occidentale. Solo che qui, contrariamente a quanto succede in Wagner, le fiamme non porteranno nessuna Erlösung (redenzione/liberazione). Solo morte e dolore. Sei personaggi partono per un barbecue notturno nella foresta: due donne, e quattro uomini, di cui tre gay (Martin, Oskar e Flynn, gli ultimi due sono fidanzati); le due donne sono l’attuale e la ex moglie di Paul, quarantenne che si tiene in forma perché vuole ancora addentare la vita con denti forti. Illusioni. Il fuoco, provocato dall’incauta grigliata ucciderà prima sua figlia di tredici mesi, che dormiva nel camper, poi sua moglie, che ha cercato disperatamente di salvare la piccola. Separati in due gruppi dalle fiamme, gli altri cinque personaggi vagheranno nel bosco sotto una pioggia di cenere, tormentati dalla sete, iniziando a tessere inconsapevolmente le trame del loro futuro sentimentale. Martin e Flynn, per esempio, finiranno per innamorarsi a tutto danno di Oskar. A quest’ultimo, poverello, dovranno pure amputargli un braccio. Si libererà creando un’istallazione in cui avrà travasato la semiotica luttuosa dell’incendio.

Nella prima parte capiamo perché Anja Hilling sia considerata una grande scrittrice: l’incendio, la morte della bambina, la peregrinazione nel bosco sono momenti in cui, come nelle grandi opere, coesistono bellezza della scrittura e profondità umana. Bella anche l’idea di osservare la commedia dei sentimenti generata da un trauma tanto violento.  Lentamente però il testo comincia a scendere, senza sfracellarsi, ma scende e, a forza di scendere, finisce piuttosto frigido e scontato. La regia di Stanislas Nordey segue la stessa parabola. Gli attori hanno qualche difficoltà a pronunciare un testo molto denso, in cui dialogo e narrazione sono strettamente imbricati, ma riescono comunque a «portare» la storia senza recarle danno. Com’era l’incendio? File di cavi tempestati di lampadine scendono dalle pareti laterali coprendo il palco e trasformandolo in luogo di luminosa tortura. Nel complesso un bello spettacolo e un’autrice da seguire.

 

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Spostiamoci verso quartieri più tradizionalmente teatrali, vicino ai Boulevards de Poissionière e de Bonne Nouvelle, tra Opéra Garnier e Republique, dove si trovano molti spettacoli ancora oggi detti boulvardiers. Come dicevo, il Théâtre de Nord-Ouest questa settimana propone quattordici spettacoli. Ma non vi immaginate un teatro dalle molte sale e tecnicamente all’avanguardia: di sale ce ne sono due, per arredare il vestibolo saccheggiarono i mercatini e le spese di riscaldamento sono ridotte al minimo. La povertà non fa che accrescere i meriti del Théâtre de Nord-Ouest, che si sforza di alternare grandi classici e autori viventi. A questi ultimi dedica il festival Paroles d’aujourd’hui, dal 4 gennaio al 23 giugno. Oggi vengo a vedere La Solitudine nei campi di cotone di Bernard-Marie Koltès, con la regia di Sevan Atalian. Invero vorrei dilungarmi sull’autore.

Morto a quarantuno anni, nel 1989, Koltès è un caso strano. Michel Vinaver, autore di una generazione precedente, ha scritto che il teatro di Koltès resterà perché i suoi drammi sono dei capolavori nella loro stessa composizione molecolare, quasi tra una parola e l’altra. Anche gli universitari hanno accolto Koltès nell’olimpo, non senza qualche reticenza per il suo ritorno alle «grandi storie» e ai «grandi personaggi», nonché per la sua irriverenza verso certo intellettualismo.  Aggiungeteci che Koltès era bello e un po’ dannato e avrete tutti gli elementi che fanno un classico contemporaneo. Eppure Koltès è piuttosto raro sulle scene parigine. Quello che successe qualche anno fa alla Comédie Française può spiegare tale anomalia. Nel 2006 la direttrice della Comédie, Murielle Mayette, mise in scena Il Ritorno al deserto affidando il ruolo di un algerino a un europeo. François Koltès, fratello dell’autore e suo erede universale, chiese che non si superasse la trentesima rappresentazione, perdendoci per altro dei bei soldini. Questo perché Koltès, Bernard-Marie, aveva stabilito che nei suoi testi i bianchi fossero recitati da bianchi, le donne da donne e, soprattutto, i neri e gli arabi da neri e arabi. Se i teatri pensavano di fare diversamente, che si rivolgessero a un altro autore.

Una volta, in Germania, sostituirono il nero di Lotta di negro e di cani con un turco! spiegando che il loro «problema» erano i turchi e non i neri. «Ma io ho scritto una storia», rispose Koltès «non un problema. Se siete tanto interessati al vostro problema, scriveteci sopra una storia e non usate il mio lavoro come un pretesto». Una risposta che, per quanto condanni alla cassa integrazione la metà dei «grandi registi» odierni, inciderei a lettere d’oro sui frontoni dei teatri.  Ora, siccome arabi e soprattutto neri sono presenti in quasi tutti i testi di Koltès; e siccome pure in Francia, senza essere inesistenti come in Italia, gli attori neri non sono certo la maggioranza, è possibile che un regista bianco, abituato a raccontare a bianchi storie di bianchi, sia obbligato fare un piccolo sforzo, quantomeno di casting.

Penso tuttavia che ci siano altri motivi per la relativa latitanza di Koltès dalle scene. Forse i suoi testi sono scritti troppo bene, le situazioni sono talmente forti, è talmente bello immaginarle a teatro, che quando ci arrivano, nella terribile pesantezza dei corpi e degli accessori, rischiano di apparire macchinose. Per esempio, considero Quai Ouest il più grande dramma francese degli ultimi cinquant’anni, ma il virtuosismo del montaggio incrociato e la lingua insieme geometrica e barocca possono diventare trappole mortali per registi amanti dell’evidenziatore e che abbiano un’idea nebulosa del ritmo da imporre ai dialoghi. Quindi, anche perché è piuttosto breve e non prevede né neri né arabi, La Solitudine dei campi di cotone è, insieme alla Notte appena prima delle foreste, il testo che mi capita di vedere più spesso. In realtà alcune battute lasciano intendere che il pusher sia un nero, ma, Patrice Chereau, il primo a metterlo in scena, si innamorò del ruolo e volle recitarlo assieme Pascal Gregory. Koltès sbuffò, ma Chereau era un amico a cui doveva molto del suo successo, lui e Gregory erano strepitosi, e le sale erano sempre piene. Si creò il precedente. E così, in tutte le messe in scena della Solitudine alle quali ho assistito, non ho mai visto il pusher interpretato da un nero. Quasi una parabola dell’ipocrisia nascosta dietro tanta chiacchiera postmoderna?

Un pusher e un cliente si incontrano nel mezzo della notte per una transazione certamente illecita ma di cui ignoriamo la natura. Perché il punto è proprio che il pusher non vuole rivelare cosa vende né il cliente che cosa cerca. Al di là delle apparenze, la Solitudine ruota attorno al desiderio e alla paura che si concretizzi – e Koltès ha fatto di tutto, per assimilare i suoi personaggi underground a due eroi raciniani o a due amanti di un racconto persiano. Ma dietro il tema del desiderio, si intravedono inquietudini ancora più filosofiche: è possibile trovare una congiunzione tra natura animale e natura civile? C’è sia più violenza nella forza bruta o nel contratto sociale?  Perché esiste questo mondo e non il caos?

Franck Soubielle interpreta il pusher con una dolcezza meravigliosa, ma dovrebbe pulire i propri gesti.  Roman Héricotte, il cliente,  all’inizio sembra un pandoro paracadutato in scena, ma alla lunga la sua indifferenza diventa perfettamente fastidiosa e crudele. La scenografia, sia detto senza cattiveria, era brutta e di nessuna utilità. Meglio uno spazio nudo.

 

 

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foto
Afp http://www.afp.com/ Tamasaburo durante le prove al Théâtre du Châtelet di Parigi

Ed eccoci arrivati nel centro del centro, al Théâtre du Châtelet, nella piazza omonima. Il Théâtre du Châtelet fu costruito nel 1862, durante i lavori del barone Haussmann che cambiarono la faccia di Parigi. Nel progetto del barone, lo Chatelet, come il suo dirimpettaio, il Théâtre de la Ville, dovevano in parte palliare la distruzione del famoso Boulevard du crime e del suo complesso di teatri popolari. Ma notate bene: il Boulevard du crime, nella Parigi di allora, era al limite dei quartieri operai, il Théâtre du Châtelet è in pieno centro. Il progetto era chiaro: evitare troppi raggruppamenti popolari e creare un pubblico omogeneo costituito principalmente dalla nuova classe media. Un tipico caso di centralizzazione.

Châtelet è anche il teatro dove sono stati creati molti dei balletti russi e affini, per esempio Parade di Satie e Cocteau. A lungo tempio dell’operetta, oggi accoglie creazioni musicali eccentriche rispetto all’Opéra di Paris: concerti classici per bambini, commedie musicali, jazz, tango, danza barocca, musica del mondo, circo e opere poco rappresentate e. È in questa cornice che ha avuto l’onore di ospitare Tamasaburo Bando e il suo Jiuta. Onore perché in Giappone Tamasaburo è stato dichiarato tesoro nazionale vivente. Insomma, è un monumento che cammina. Vi immaginate dovessero farlo da noi, che so, con  Gabriele Lavia?  Nel bene o nel male, non è ancora il caso. Tale onore Tamasaburo lo deve ai suoi ruoli di Onnagata, ossia di uomo che interpreta una donna (nel Giappone del XVII secolo fu proibito alle done di salire in scena per le solite questioni di morale). I tre solo di danza kabuki che ha mostrato a Parigi accompagnano, quindi, tre monologhi femminili.

Nella danza kabuki movimenti, trucco e abiti collaborano alla pari nella ricerca di un eleganza fortemente stilizzata, eppure molto emozionante

Non a caso lo spettacolo si apre con le parole: «le mie maniche cadono e il mio cuore si alleggerisce». È chiaro che con vestiti insieme voluminosi e serrati come quelli tradizionali giapponesi la danza kabuki non ha molto a che vedere con la nostra, la cosiddetta classica, dove emozione estetica e prestazione atletica tendono a coincidere. L’arte di Tamasaburo trattiene il movimento per creare una fluidità impercettibile, anche se non mancano pantomime e accelerazioni improvvise. In un certo senso è più vicina al flamenco – e forse non è un caso che i più grandi ballerini di flamenco, dopo gli spagnoli, siano proprio i giapponesi.

Come detto, le danze sono accompagnate da testi, o meglio da quella sorta di recitar cantando (al mio orecchio abituata all’opera) che abbiamo sentito in molti film giapponesi. Della musica e del canto si occupa Seikin Tomiyama – altro tesoro nazionale in vita. Gli strumenti sono uno Shamisen, sorta di liuto a tre corde da pizzicare con un plettro, e il koto (suonato dal figlio non ancora museificato di Seikin: Kiyohito Tomiyama), una citara a tredici corde disposta in orizzontale, come un pianoforte. È l’ensemble che caratterizza lo Jiuta, canto di natura popolare che fino al 1912 fu trasmesso da aedi ciechi.

La prima danza, Yuki (Neve, fine XVII secolo), si snoda sul racconto di una geisha abbandonata dal suo amante e i movimenti di Tamasaburo sembrano ruotare attorno a un’impossibile staticità, per esprimere una malinconia estatica.

La seconda danza, Aoino-ue (Dama Ue), è altra cosa. È tratta dal Racconto di Genji (romanzo  dell’XI secolo, che, insieme al Racconto di Heike, ha lo stesso ruolo nel teatro giapponese che i poemi omerici hanno in quello greco). La passione è una gelosia feroce e il canto sembra tendere più all’aria. Tamasaburo esprime l’odio dell’amante tradita dal Principe Genji con  frusciante leggerezza e qualche gesto secco e crudele – è qui che ho notato le più grande somiglianza col flamenco, il tema si prestava.

La terza danza, Kanega-Misaki (Il Promontorio della catena del tempio), si apre su un fondo immacolato, sul quale si staglia un albero di ciliegio (fiore di grande importanza nella cultura giapponese), mentre petali rosa pallido cadono sulla scena. Bob Wilson si è abbondantemente ispirato. Tratto dalla leggenda, Dojyo-ji, racconta l’amore impossibile tra una donna, Kiyohime, e un monaco, Aysh, o piuttosto la sua rievocazione: comincia con una meditazione buddista, prosegue con un viaggio nella città come luogo di falsità e corruzione e si conclude con l’unione immaginaria dei due amanti sulla collina del tempio. In realtà, ma questo la canzone non lo dice, Kiyohime ha ucciso il monaco, dopo essersi trasformata in serpente.

Al di là del tema amoroso, le tre canzoni sono attraversate dal sentimento  della vita come sogno impalpabile, la cui bellezza sta proprio nella sua evanescenza e nell’inestinguibile  filo di dolore che la attraversa. Difficile dare un giudizio per chi non conosca a fondo il teatro giapponese. Indubbiamente Tamasaburo e i Tomiyama hanno invaso il teatro di una poesia ipnotica alla quale è molto difficile non soccombere. E  soccombetti.

 

Tristesse animal noir: di Anja Hilling. Regia Stanislas Nordey. Con Valérie Dréville, Vincent Dissez, Thomas Gonzalez, Moanda Daddy Kamono, Frédéric Leidgens, Julie Moreau, Laurent Sauvage, Lamya Regragui. Collaborazione artistica Claire Ingrid Cottanceau Scenografia Emmanuel Clolus Luci Philippe Berthomé. Suono Michel Zurcher. Assistente Emmanuel Clolus.

Al Théâtre La Colline dall’11 gennaio al  2 febbraio 2013.

 

Dans la solitude des champs de coton: di Bernard-Marie Koltès. Regia Sevan Atalian. Con Roman Héricotte e Franck Soubielle.

Al Théâtre du Nord-ouest dal 5 gennaio al 3 marzo 2013.

 

Jiuta: Tre soli di danza kabuki: Yuk; Aoino-une; Kanega-Misaki. Con Tamasaburo Bando

Musiche Duo Seikin Tomiyama. Sottotitoli: Sylvie Durastanti, Véronique Brindeau.

Al Théâtre du Châtelet dal 5 al 7 febbraio 2013.

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