Discorsi alla nazione di Ascanio Celestini

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fotoLo spettacolo inizia con registrazioni di lacerti di discorsi di grandi dittatori Mao, Mussolini, Khomeini ad altri aspiranti dittatori come Craxi, Berlusconi Ratzinger, D’Alema, Grillo. Il populismo è la tecnica utilizzata da tutti i dittatori per adulare l’elettore, fare apparire vere le promesse e le menzogne e trasformare quindi i cittadini in (spesso consapevoli) sudditi. Lo spettacolo inizia con un prologo che sembra improvvisato ed è la parte migliore della performance. Dice infatti Ascanio Celestini: “Il mio è un testo non imparato a memoria, perciò funziona come l’improvvisazione, come un suono, una dinamica musicale. La ripetitività mi permette di variare il tono, mantenere il ritmo”.

Poi inizia la narrazione con quattro personaggi che abitano un condominio (Italia), quattro storie di una umanità violentata: C’è chi vuole vivere appartato e subisce l’intrusione di amici e parenti, c’è chi spara a caso dalla finestra, chi ha l’ombrello che metaforicamente rappresenta il potere e offre protezione dalla pioggia ad uno senza ombrello e poi lo rende schiavo, e infine c’è quello che vive con la pistola in tasca che lo aiuta a socializzare. I quattro personaggi sono in attesa del loro Godot, di un dittatore che metta fine alla pioggia che fuor di metafora è “quell’invisibile guerra che stiamo vivendo”.La parte finale è dedicata all’aspirante despota che per strappare consenso e legittimazione riesce a sedurre i suoi sudditi. Inizia la sua arringa con “compagni e compagne” stimola pulsioni rivoluzionarie ormai sopite e guardando all’oggi vorrebbe vedere provocatoriamente un cassaintegrato ministro del lavoro, un poeta a quello della cultura, un contadino ministro dell’agricoltura. Dice di Grillo che il suo deficit di ideologia lo porta a cambiare idea in cinque minuti se glielo chiede la rete. La conclusione è realista. Conclude Celestini che “Il pesce grande mangerà sempre quello piccolo e anche se tutti i pesci si mettono insieme non riusciranno mai a mangiare il pescecane, possono solo diventare i suoi parassiti”.

Lo spettacolo è dunque uno spaccato del nostro tempo, un confronto con ciò che eravamo e quello che siamo, uno squarcio su un panorama politico irreale, ipotetico, utopico.

Per 100 intensi minuti l’inesauribile autore-attore, da solo sul palco, sequestra il pubblico con riflessioni, ricordi, interrogativi giocati sulla corda metaforica e surreale che trasmette con la forza magnetica della sua parola e dei suoi gesti. Ogni monologo di Celestini è un viaggio attraverso la memoria e la sua parola trasforma la realtà in immagine, apre e richiude squarci nel tempo. Il suo è un teatro di parola e di memoria. Memoria che non è solo ricordo ma segno, testimonianza e impegno.

Ancora una volta Celestini si conferma un mostro di bravura. Nel suo mutevole registro interpretativo l’artista riesce, come nessun altro, ad imprimere al suo eloquio una velocità che stordisce, una ricchezza di colori che abbaglia.

Una critica? Troppa ideologia, poca ironia!