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Doppio suicidio d’amore a Sonezaki al Teatro Argentina di Roma

fotoEvento più unico che raro quello proposto venerdì 4 e sabato 5 ottobre presso il Teatro di Argentina, l’ultimo di una ricca serie di appuntamenti organizzati dall’Istituto Giapponese di Cultura di Roma per celebrare i suoi 50 anni di fondazione. Uno spetacolo di grande spessore culturale, che fa riscoprire una pagina importante ma pressoché sconosciuta del teatro giapponese, quello del teatro dei burattini, il burnaku, riconosciuto come bene intangibile del Paese e designato anche dall’Unesco come Patrimonio Immateriale dell’umanità. Il genere è nato verso la fine del XVI secolo dall’incontro di due arti indipendenti: l’animazione di burattini da parte di artisti itineranti e la recitazione di testi epico-narrativi (jōruri) da parte di un narratore (tayū), modulata e ritmata dallo shamisen, strumento musicale a tre corde percosse da un grande plettro. I burattini del burnaku non sono pupazzi dai movimenti meccanici mossi dal basso, ma stupendi pupazzi di grandi dimensioni estremamente espressivi, dal viso di ceramica e vestiti tradizionali. Mani, gambe, testa, vengono controllati da tre burattinai, presenti in scena in abito nero, che adottano le innovazioni nella meccanica dei burattini introdotti nella prima metà del ‘700, che permettono ai pupazzi di esprimere tenerezza, amore, disperazione e felicità come fossero attori in carne e ossa. Doppio suicidio d’amore a Sonezaki (Sonezaki shinjū) è proprio l’opera che nel 1703 ha iniziato il genere e il successo del burnaku. L’autore del testo è Chikamatsu Monzaemon (1653-1724), lo Shakespeare d’Oriente, che ha tratto le vicende da un fatto di cronaca: la tragica storia tra una cortigiana, Ohatsu, e un commesso di salsa di soia, Tokubei, ostacolati nei loro progetti d’amore dalla cieca disonestà di un amico e dalle rigide convenzioni sociali. Lo stile di narrazione è quello del cantore Takemoto Gidayū (1651-1714), che ha reso il testo altamente drammatico. L’opera torna oggi in scena dopo essere stata messa al bando del governo giapponese nel 1723 per fermare i numerosi suicidi d’amore che si stavano verificando tra giovani coppie che volevano emulare i protagonisti. L’opera, infatti, trasmette un forte ideale: nell’aldilà gli amanti potranno ricongiungersi e coronare il loro sogno d’amore. La storia torna in scena nel 1955 ma profondamente cambiata nella tecnica di rappresentazione e mutilata della scena iniziale. È di Sugimoto Hiroschi, fotografo e artista giapponese di levatura internazionale, il merito di aver riportato il testo alla purezza e allo stile originari, riproponendo anche la scena iniziale del pellegrinaggio della protagonista per i trentatre luoghi sacri del culto del bodhisattva Kannon nell’area di Osaka, scena centrale per comprendere la profonda devozione della ragazza ai principi buddhisti che la condurrà alla tragica decisione finale. Accanto ad un curato lavoro filologico, però, Sugimoto introduce la contemporaneità, attraverso immagini reali e astratte videoproiettate che allargano gli orizzonti spaziali. Davvero mirabili le scenografie, funzionali ai complessi movimenti dei numerosi burattinai, e innovative rispetto agli scenari tradizionali. I burattini tornano ad essere i veri protagonisti della scena, con la loro toccante dolcezza impressa nei movimenti e il realismo del gesto col quale si levano il copricapo. Straordinaria la bravura dei tre narratori, che si alternano per intonare il difficile canto ritmato o cantilenato con cui danno voce ai diversi personaggi. La traduzione simultanea in italiano consente di seguire la prosa aulica e ricercata. Peccato, però, non averla potuta avere anche nel secondo atto, per problemi di ritorno d’audio sul palco. Un grande evento da non perdere.

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