con Manuela Mandracchia, Luciano Roman
e con (in ordine di apparizione) Jacopo Venturiero Simonetta Cartia
Federica Rosellini Massimo Nicolini Laura Piazza
regia Antonio Calenda
scene Pier Paolo Bisleri
costumi Carla Teti
luci Nino Napoletano
musiche Germano Mazzocchetti
produzione Compagnia Enfi Teatro
Personaggi e Interpreti:
Hedda Gabler |
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Manuela Mandracchia |
Giudice Brack |
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Luciano Roman |
Jorgen Tesman |
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Jacopo Venturiero |
Juliane Tesman |
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Simonetta Cartia |
Signora Elvsted |
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Federica Rosellini |
Ejlert Løvborg |
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Massimo Nicolini |
Berte |
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Laura Piazza |
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Gelida e altera, consapevole del proprio fascino eppure fragile nella sua intima frustrazione, nella sua incapacità di vivere serenamente la propria femminilità, ossessionata dal successo e rapita da un vortice di egoismo, rivalità, deleteria intransigenza: Hedda Gabler è una delle più problematiche, febbrili e seduttive figure femminili ibseniane. È a questo personaggio e alle suggestioni dell’opera di Henrik Ibsen che il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia – assieme alla compagnia ENFI Teatro – si volge, intraprendendo un significativo itinerario nella grande drammaturgia classica europea. Antonio Calenda affronta Hedda Gabler dirigendo nel ruolo del titolo Manuela Mandracchia, interprete sensibile, uno dei nomi di spicco dell’attuale mondo teatrale italiano.
Ibsen – assieme allo scandinavo e di poco successivo August Strindberg – rappresenta un vertice assoluto nella letteratura teatrale ottocentesca, attraverso i cui modelli continua ad esprimersi, aprendone però le prospettive a nuove vie, a percorsi di piena modernità che egli ha il merito di prospettarci in tutta la loro complessità concettuale e profusione di suggestioni. Ancora intessuto di fili naturalistici ma anche di potenti suggestioni metafisiche, attraversato dagli influssi di Kirkegaard, ma anche da quelli di Balzac e di Dumas fils e di molta fondamentale letteratura tedesca che l’autore approfondì nei suoi oltre vent’anni di peregrinazioni fra Roma e la Germania, il Teatro di Ibsen non nega dunque i confini del teatro borghese, ma li abita con inquietudine, attraverso storie di tragedia quotidiana, aspre e palpitanti d’anticonformismo, che obbligano il pubblico a un proprio chiaro atto di coscienza e interpretazione.
I personaggi, soprattutto le creature femminili, esprimono sempre uno o più nodi tematici che stanno a cuore all’autore, senza però apparire mai esemplificativi: conservano invece tutta la loro vibratile complessità, vivono ogni chiaroscuro, ogni contraddizione e ciò assicura ai loro profili ed ai loro conflitti dirompenza emotiva.
«È in questo tormento scuro – commenta il regista – la chiave che li rende moderni, ciò che di loro conquista tuttora artisti e pubblico. Trovo da questo punto di vista molto significativo un prezioso intervento di Roberto Alonge, che sottolinea come Ibsen appaia come una sorta di gemello, forse ancor più geniale, di Freud. Capace di scavare nel pozzo nero dell’inconscio e di raccontare attraverso il suo teatro inquietudini di assoluta attualità: se da scienziato Freud esterna le proprie scoperte, Ibsen lo fa da artista… Depista, accenna, occulta, ma dalle pieghe del linguaggio, dalle ombre interiori è facile intuire quanti fantasmi incestuosi padre-figlia popolino la scena, quanti drammi psicologici, quanto l’oscurità abbia da rivelare».
Appare alla fine riduttivo anche il ravvisare in Henrik Ibsen – come a lungo si è fatto – un portabandiera ante litteram dell’emancipazione femminile: le sue protagoniste, Nora in Casa di Bambola, la Signora Alving in Spettri e naturalmente la misteriosa Hedda Gabler ci offrono un mondo di induzioni ben più frastagliato.
Scritto nel 1890 e andato in scena – con accoglienza gelida per la sua vis provocatoria – l’anno successivo al Residenztheater di Monaco, Hedda Gabler pone al proprio centro una figura che si discosta profondamente dall’ideale femminile coevo ad Ibsen.
Dopo la morte del padre, il generale Gabler, con cui aveva condotto vita altolocata, la giovane Hedda si trova costretta a sposare per interesse un mediocre intellettuale piccolo borghese Joergn Tesman. Egli ambisce a una cattedra universitaria che gli spetterebbe di diritto e nella prospettiva di questo incarico, per amore di Hedda ha contratto debiti, intrapreso un lungo viaggio di nozze e acquistato una villa. Rientrata dalla luna di miele, Hedda appare del tutto insoddisfatta della sua nuova vita, annoiata, confusa dalla sua stessa femminilità enigmatica e ancor più dal fatto di essersi scoperta incinta, stato che invece il marito non sa intuire.
La confusione nella casa aumenta quando riappare Løvborg un antico amore di Hedda, scrittore tutto “genio e sregolatezza” che ora è amato e ispirato dalla giovane Thea, e che potrebbe concorrere alla cattedra di Tesman. Hedda è subito infastidita da Thea, le si finge amica per rivaleggiare con lei, senza un vero motivo; Tesman impensierito per il futuro, ma leale. Una sera, ubriaco, Løvborg smarrisce il manoscritto che avrebbe dovuto portare a compiutezza il suo successo e ciò manda nella disperazione lui e Thea. Tesman lo ritrova, ma Hedda lo convince a tacere e brucia il capolavoro. Durante un incontro con Løvborg lo indurrà a uccidersi, fornendogli addirittura una delle pistole del padre generale, in un cieco slancio di volontà di potenza e di controllo del destino altrui. Ma la forza e l’individualità di Hedda varcano presto il confine della solitudine: ricattata e minacciata di scandalo dall’assessore Brack, non confortata dal marito, tutto intento a ricostruire assieme a Thea il capolavoro perduto, tormentata dalla frustrazione, la donna sceglie di suicidarsi davanti al ritratto del padre.
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