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Sergio Rubini e Michele Placido in Zio Vanja di Marco Bellocchio al Teatro Quirino di Roma

fotoUn cast di grande richiamo, un regista controverso e il dramma di uno dei più celebri autori russi di fine Ottocento. È in scena al Teatro Quirino di Roma Zio Vanja con Sergio Rubini e Michele Placido, diretti da Marco Bellocchio, maestro indiscusso della cinematografia italiana alla sua terza regia teatrale. La perla tra le perle della drammaturgia di Anton Čechov si coniuga con la visione anticonformista e coraggiosa del regista de I pugni in tasca, L’ora di religione e Buongiorno, notte. Bellocchio affronta senza timori un testo incentrato sul tema dell’immobilismo e della speranza, che fa pensare alla situazione storica contemporanea dell’Italia. Restando fedele al testo e allo spirito dell’opera, il regista coinvolge lo spettatore nel vortice claustrofobico di cui sono preda i personaggi, insoddisfatti, incapaci di gesti risolutivi, tediati da una vita oziosa e noiosa all’interno di una casa di campagna. Sergio Rubini è zio Vanja, il protagonista che sente di aver sprecato la sua vita nella celebrazione del cognato, il professor Serebrjakov (Michele Placido), che ora gli appare fasullo, millantatore, vuoto e vanesio, un “grafomane”, una “trebbiatrice” della scrittura. Anche il dottor Astrov (Pier Giorgio Bellocchio) appare animato da un imperativo, “Bisogna agire!”, e da tante passioni che potrebbero cambiare l’ambiente naturale e le persone che vi abitano, salvo poi scoprirsi impotente e rifugiarsi nella vodka. Così pure Sonja (Anna Della Rosa), la figlia di primo letto del professore, incapace di rivelare il suo amore al dottor Astrov e prigioniera di un corpo che definisce brutto. Anche Elena (Lidiya Liberman), la seconda moglie del professore, è incapace di seguire davvero il suo cuore, preferendo rimanere accanto all’uomo vecchio che l’aveva affascinata, e con la sua bellezza risulta essere un elemento destabilizzante nel casale, forse l’unica persona capace di stravolgere la situazione di fatto, se non prevalesse un’apatia tragica. Eccetto la vecchia balia (Maria Lovetti), che vive accettando la realtà e amando la vita di campagna con tutte le sue creature, su tutti aleggia lo spirito di rassegnazione, l’immobilismo, la speranza di ricominciare a sentirsi vivi senza, in realtà, cambiare nulla. Zio Vanja non riesce a portare a compimento con successo nemmeno l’assassinio del cognato che incarna il fallimento della sua vita. Nessuno è capace di gesti eclatanti. Si può solo partire o sedersi a tavolino, a lume di candela, per vivere i restanti anni della propria vita, mesti e arrendevoli.

La piéce si propone, senza timore, lenta, meditativa, lamentosa. Bellocchio indugia su silenzi e scene statiche, lascia presagire la miseria e la decadenza cui va incontro chi sceglie l’immobilismo. Michele Placido e soprattutto Sergio Rubini trovano la chiave giusta per caratterizzare il professor Serebrjakov, quasi una macchietta, fastidiosamente ipocondriaco ed egocentrico, e zio Vanja, nervoso nei movimenti e animato da un’ironia tragica che diverte gli spettatori. A distendere l’atmosfera così carica di drammaticità ci pensano le musiche di Carlo Crivelli e i cambi di scena col brulichio dei personaggi immersi nelle poetiche scenografie e disegno di luci di Giovanni Carluccio.

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