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Teatro della Pergola (Firenze): gli appuntamenti di febbraio 2014

Fino al 2 febbraio 2014

Compagnia Mauri-Sturno

In collaborazione con la Fondazione Teatro della Pergola

GLAUCO MAURI ROBERTO STURNO

UNA PURA FORMALITÀ

dal film di GIUSEPPE TORNATORE

versione teatrale e regia GLAUCO MAURI

e con Giuseppe Nitti, Amedeo D’Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore

scene GIULIANO SPINELLI

costumi IRENE MONTI

musiche GERMANO MAZZOCCHETTI

Quando Una pura formalità di Giuseppe Tornatore uscì nel 1994 fu accolto, per la sua inquietante novità, con una certa difficoltà da parte della critica. Oggi è considerato uno dei suoi film più belli in assoluto (lo stesso autore ne è convinto), un “piccolo capolavoro”, ne erano protagonisti Gérard Depardieu e Roman Polanski con un giovanissimo Sergio Rubini.

Nell’allestimento teatrale Roberto Sturno è lo scrittore Onoff e Glauco Mauri il Commissario, con loro in scena: Giuseppe Nitti, Amedeo D’Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore. Le scene sono di Giuliano Spinelli, i costumi di Irene Monti, le musiche di Germano Mazzocchetti.

Tema centrale di Una pura formalità:la ricerca della memoria. Gli squarci che si aprono nella mente del protagonista durante il serrato interrogatorio in uno “strano” commissariato ricostruiscono il suo passato, risalgono alle sue origini con continui colpi di scena, e come in un thriller lo spettatore arriva alla verità con un inatteso finale.

“L’intensità del racconto, il suo ritmo, illuminato da emozionanti colpi di scena, una razionale e al tempo stesso commossa visione della vita – dice Glauco Mauri – mi hanno spinto, in pieno accordo con Tornatore, ad una libera versione teatrale.

Già il film ha una sua struttura sospesa fra cinema e teatro e questo mi ha molto aiutato nel lavoro. E come negli “incontri” fortunati, la storia così magnificamente raccontata nel film, ha fatto germogliare in me emozioni inaspettate che diventavano sempre più mie.

Un’opera tanto più è valida quanto più dona a un interprete la possibilità di scoprire sfumature umane e poetiche in essa nascoste.

Ho cercato di far rivivere tutta la forza drammatica della sceneggiatura modificandone quelle parti che si presentavano con dei connotati troppo cinematografici, preservandone al tempo stesso quell’intensità che dall’inizio ci avvolge nel suo misterioso intreccio. Il racconto rimane oscuro fino al suo sconvolgente epilogo dove i pezzi lacerati di una vita si compongono in una serenità inaspettata e commovente: un capovolgimento radicale di quello che sembrava un giallo.

Un delitto è stato commesso e ne viene accusato un celebre scrittore, Onoff.

Ma, pur con la tipica atmosfera di un thriller, Una pura formalità è un viaggio alla scoperta di se stessi, di quella che è stata la propria vita.

Gli uomini sono eternamente condannati a dimenticare le cose sgradevoli della loro vita; e più sono sgradevoli e prima si apprestano a dimenticarle”. Ecco quello che scrive in uno dei suoi romanzi Onoff, che nella lunga notte di Una pura formalità cerca ansiosamente di ricordare… ricordare… cosa?

Un altro uomo aiuta Onoff in questa faticosa ricerca di un passato che si è voluto dimenticare: un inquietante commissario di polizia, un personaggio duro e ironico, comprensivo ma implacabile…

Non può non sovvenirmi il ricordo del grande Dostoevskij e il rapporto tra Porfirij e Raskolnikov in Delitto e Castigo.

Tutto si svolge in una sperduta stazione di Polizia. Ma lo è veramente? E dove si trova? E quelle strane persone al suo interno, sono poliziotti? Cosa aspettano?

La storia fa nascere numerosi interrogativi ed è pervasa di “misteriosi perché”. Il cinema ha le sue ricchezze espressive, il teatro ne ha altre che sono sue proprie. E su un palcoscenico, nel nostro caso, la parola assume un valore non solo di racconto ma anche di invito alla fantasia e alle domande. Domande necessarie all’uomo per aiutarlo a cercare di comprendere quel viaggio a volte stupendo e a volte terribile ma sempre affascinante che è la vita.”

Dal 4 al 9 febbraio

Teatro Stabile del Veneto, Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Società per Attori

fotoALESSANDRO GASSMANN

RIII – RICCARDO TERZO

di William Shakespeare

traduzione e adattamento di Vitaliano Trevisan

con

(in ordine di apparizione)

Alessandro Gassmann (Riccardo)

Mauro Marino (Edoardo, Stanley, Margherita)

Giacomo Rosselli (Rivers, Catesby)

Manrico Gammarota (Tyrrel)

Emanuele Maria Basso (Carceriere, Richmond, Vescovo)

Sabrina Knaflitz (Anna)

Marco Cavicchioli (Clarence, Hastings, Messaggero)

Marta Richeldi (Elisabetta)

Sergio Meogrossi (Buckingham)

e con la partecipazione di Paila Pavese (Duchessa di York)

ideazione scenica e regia Alessandro Gassmann

scene Gianluca Amodio costumi Mariano Tufano

musiche originali Pivio & Aldo De Scalzi

videografia Marco Schiavoni

Giovedì 6 febbraio, ore 18.00

Alessandro Gassmann e gli attori della compagnia incontrano il pubblico. Ingresso libero

Grande testo, il Riccardo III di William Shakespeare, che ha per protagonista un re crudele, ambizioso, manipolatore, ma anche insicuro, tormentato, spaventato dalla solitudine. Alessandro Gassmann, alle prese per la prima volta con un capolavoro shakespeariano, lo porta in scena nella doppia veste di regista e protagonista con un adattamento e una messa in scena contemporanea, piena di rabbia e di passione. “Il nostro Riccardo, col suo violento furore, la sua feroce brama di potere, la sua follia omicida, la sua ‘diversità’ – dice Gassmann – dovrà colpire al cuore, emozionare e coinvolgere il pubblico di oggi (mi auguro in gran parte formato da giovani), trasportandolo in un viaggio affascinante e tragico, attraverso le pieghe oscure dell’inconscio e nelle deformità congenite dell’animo umano”. La decisione di affrontare un’opera di Shakespeare – “ho sempre avuto nei riguardi del Bardo un approccio timoroso, forse per l’incombenza di gigantesche ombre familiari” confida lo stesso Gassmann – non è disgiunta dal felice incontro artistico con Vitaliano Trevisan, la cui rilettura permette di immergersi con immediatezza in tutta la forza, la bellezza e la straordinaria attualità di questa grande opera, attraverso un linguaggio moderno, diretto ed efficace: “Vitaliano Trevisan ha mantenuto assoluta fedeltà all’originale ma lo ha tradotto in italiano – spiega infatti Gassmann – nel linguaggio comunemente parlato e che permetterà a me e agli altri nove attori di recitare in maniera che Shakespeare torni a parlare alla gente, come era in

origine”. Una lingua asciutta, secca, che arriva dritta, rendendo la trama chiara e coinvolgente. E’ un Riccardo gigantesco, fuori scala rispetto agli altri attori e alla scena, costretto a chinarsi per potersi specchiare, per passare da una porta, o per guardare qualcuno negli occhi. “Ho già le scarpe adatte” disse sorridendo Alessandro Gassmann a Trevisan al loro primo incontro. E quell’idea intrigò da subito il drammaturgo veneto…

fotoDall’11 al 16 febbraio

Teatro Franco Parenti, Teatro Stabile dell’Umbria

IL DON GIOVANNI

VIVERE È UN ABUSO, MAI UN DIRITTO

di e con Filippo Timi

e con Umberto Petranca, Alexandre Styker,

Marina Rocco, Elena Lietti, Lucia Mascino,

Roberto Laureri Matteo De Blasio, Fulvio Accogli

regia e scena Filippo Timi

regista Assistente Fabio Cherstich

luci Gigi Saccomandi

suono Beppe Pellicciari

costumi Fabio Zambernardi

in collaborazione con Lawrence Steele

Giovedì 13 febbraio, ore 18.00

Filippo Timi e gli attori della compagnia incontrano il pubblico. Ingresso libero

Né secondo Molière, né secondo Mozart. Semplicemente secondo Filippo Timi: il mito di Don Giovanni riscritto dal più irriverente degli artisti italiani:“non aspettarti il Don Giovanni piacione dell’opera originale che passa la vita a sedurre le donne. Pensa che in scena ci sono otto quinte color oro acceso, che uno le vede e dice: “Aiuto!” È una rilettura estetizzante e piena di contaminazioni musicali, dalle allucinazioni dei Pink Floyd all’Uomo Tigre. Sono incursioni che servono a rendere un mito come il Don Giovanni contemporaneo. Come il mio, che si veste con un mantello con più di mille fiori cuciti sopra”. Dopo l’Amleto, col Don Giovanni, Filippo Timi continua il suo percorso di riscrittura e reintepretazione intervenendo su un testo classico con quella carica di humor nero che fa presagire la morte, tanto che il suo Don Giovanni sa già di dover morire; conosce la sua fine; deve semplicemente rincorrerla. Ha capito che la vita è ingiusta, giustificata solo dalla morte. Questa consapevolezza lo trattiene, non lo fa bruciare, benché desideri bruciare, essendo convinto che un desiderio morto non è più un desiderio. Il suo rapporto con Donna Anna, Donna Elvira, e Zerlina è molto teatrale, proprio perché la sua arte è tutta teatrale. Tutti i personaggi che si muovono sulla scena sono ingabbiati negli straordinari costumi di Fabio Zambernardi, e nelle luci, di forte spettacolarità, disegnate da Gigi Saccomandi. Timi, che ne Il Don Giovanni lo è per finta, un grande seduttore lo è per davvero, e senza riserve di genere: da odiare o amare, snobbare o applaudire. Un personaggio, prima e molto più che un attore. E lui è certo che lo sa: “amo quando non capisci se in scena vedi l’uomo o il ruolo”.

Note di regia

Don Giovanni conosce la sua fine, è solo questione di rincorsa. Don Giovanni è l’umanità volubile e insaziabile, l’umanità finalmente priva di quelle morali colpevoli dell’assurdo destino verso cui stiamo precipitando. E la colpa non è certo della storia, o di tutti quei Cristi che c’hanno professato amore, ma la nostra: la fame di potere insita nell’uomo, nessuno escluso, la fame di resistere, di mistificare, di ingannarsi piuttosto che sopravvivere. Meglio morire da idioti ma tutti insieme che svegliarsi e di colpo comprendere l’errore? Evidentemente si. Ma stavolta l’evidenza lascerà una firma sanguinaria, una firma così profonda da spazzare via l’intera umanità. Don Giovanni è un’intera Storia dell’umanità che muore. Finalmente, dopo la sua rincorsa, dopo millenni di fame, eccolo pagare il conto. Non c’è scampo: se neppure un’umanità sveglia e godereccia, fuori dalle regole e concentrata sul piacere come Don Giovanni, non può esimersi dal suo più importante appuntamento con la morte, allora, neppure noi possiamo più far finta di nulla.

Solo schiavi delle proprie miserie e desideri più neri ci si riappacifica con la propria infanzia, e si è pronti a vivere la morte. La vita è ingiusta, ecco che cos’è la vita, una farsa che si trasforma in tragedia. Vivo è solo ciò che muore, e solo amando si rischia davvero di toccare le vette gelide dell’estrema solitudine, e da lì sentire il canto delle sirene. Solo tradendo si raggiunge l’amore assoluto. Un desiderio morto non è più un desiderio. Don Giovanni non brucia mai veramente, desidera bruciare, promette l’inferno, la sua arte è teatrale, recita così bene la promessa che è impossibile non credergli o ancora meglio non desiderare credergli. Donna Elvira è il passato, è la conquista difficile, la conquista di un tempo lento, l’amore vero, la prima donna, l’amore che ritorna a chiedere il compenso di una promessa già fatta. Donna Anna è l’amore ingannatore, violento, un errore semi-calcolato, è l’amore che libera dal vecchio incubo e rende la donna libera di scendere verso un incubo ancora più cosciente, è l’amore compulsivo, immediato, sbagliato per definizione. Zerlina è l’improvvisazione, la dialettica della seduzione, è l’amore invidioso, la voglia di portare via la donna al marito, il desiderio di ritrovare quella purezza semplice di sposare la figlia del farmacista.

Ognuno ha la propria storia, io la mia, tu la tua, voi la vostra e Don Giovanni ha la sua. Non l’ha scelto lui di nascere Mito, gli è capitato, e lui non si sottrae dall’essere se stesso. Ecco in cosa è grande. Non perché accetta la morte, deve per forza, come tutti. E’ grande perché accetta a pieno le conseguenze, inevitabili, dell’essere nient’altro che se stesso.

 

Dal 18 al 23 febbraio

Sicilia Teatro

Sebastiano Lo Monaco – Lelia Mangano De Filippo

NON E’ VERO MA CI CREDO

Di Peppino De Filippo

con Alfonso Liguori

scene e costumi Alida Cappellini e Giovanni Licheri

luci Luigi Ascione

regia Michele Mirabella

personaggi e interpreti

Gervasio Savastano – Sebastiano Lo Monaco

Teresa, sua moglie – Lelia Mangano De Filippo

Rosina, sua figlia – Maria Laura Caselli

Alberto Sammaria – Antonio De Rosa

Avv. Donati – Alfonso Liguori

Ragioniere Spirito – Vincenzo Borrino

Mazzarella, la dattilografa – Margherita Coppola

Belisario Malvurio – Carmine Borrino

Tina, la cameriera – Luana Pantaleo

Musciello – Salvatore Felaco

Dottor Bottola – Salvatore Felaco

Invitata – Cristina Darold

Invitato – Matteo Bianco

Giovedì 20 febbraio, ore 18.00

Sebastiano Lo Monaco, Lelia Mangano De Filippo e gli attori della compagnia incontrano il pubblico. Ingresso libero

“Essere superstiziosi è da ignoranti”, sosteneva Eduardo in un suo celebre motto, “e porta pure male”: e nella cultura partenopea la superstizione e il presagio hanno veramente un gran peso. Peppino non fu da meno del fratello quanto a timore reverenziale per la buona sorte, che propiziava con ogni sorta di amuleto. Logico che dedicasse a questo tema anche una divertente commedia.

Il commendatore Gervasio Savastano è tormentato dalla superstizione; i suoi affari non vanno bene e lui sospetta che la colpa sia di un suo impiegato, Belisario Malvurio, cui attribuisce un influsso malefico. In famiglia ci sono problemi: sua figlia Rosina si è innamorata di un giovane, che il padre ritiene non all’altezza del rango della ragazza. All’improvviso, però, la fortuna sembra girare. In azienda arriva un giovane, Alberto Sammaria, e gli affari cominciano ad andar bene. Anche il giovane di cui era innamorata la figlia è un lontano ricordo. L’inconveniente è che il novizio aziendale ha una magnifica gobba beneaugurante. Tutto sembra filare liscio, ma il diavolo ci mette lo zampino: il gobbo confessa di essersi innamorato di Rosina, e dà le dimissioni. Il commendatore è disperato, ma convincerà sua figlia a sposare Sammaria. Non può mancare il sorprendente lieto finale.

Note di regia

Fateci caso. In questa commedia due personaggi indossano un nome che è tutto un programma. Un programma di rinvii simbolici, di allusioni onomastiche: Malvurio Belisario e Sammaria Alberto. Messi così, come nei registri scolastici, col cognome prima, i due ostentano una farsesca denominazione che invia al male, nel caso di Belisario, alla iattura, alla cupa profezia che si avvinghia a quella lettera u che avvita il finale “rio”, cattivo. Appunto. E, c’è, poi, quel soave Sammaria chiesastico che sembra attivare un Rosario di benedizioni, una novena di fortune irrorate da oscuri voleri superiori.

Il commendatore Gervasio Savastano è tormentato dalla superstizione; i suoi affari non vanno bene, arrancano faticosamente e lui sospetta che la colpa sia di un suo impiegato, Belisario Malvurio, cui attribuisce un influsso malefico, sarebbe, insomma un poco iettatore. Anche in famiglia ci sono problemi: sua figlia Rosina si è innamorata di un giovane impiegato, che il commendatore ritiene non all’altezza del rango borghese, peraltro, della ragazza. All’improvviso, però, la fortuna sembra ricordarsi del commendator Savastano. Nell’azienda capita un giovane, Alberto Sammaria e, con il suo arrivo, gli affari cominciano di colpo ad andar bene. Anche la figlia del commendatore sembra aver ritrovato la serenità e il giovane di cui era perdutamente innamorata è diventato un lontano ricordo.

Il fatto è che il novizio aziendale ha la gobba, una magnifica gobba beneaugurante, una gibbosità portafortuna, seconda la antichissima superstizione diffusa in tutta l’aerea mediterranea. Crudele per il titolare che la sopporta, costretto a subire il soverchio di toccamenti casuali, di carezze furtive, di occhiate sorridenti e ammiccanti alla sua deformità. Chi ricorda i lamenti di Rigoletto buffone di corte, che sopporta l’onere della sua tabe sa di che cosa parlerebbe Sammaria se fosse libero di farlo. Ma non lo è e deve compiacersi della sordida felicità del datore di lavoro. Gli affari, infatti, vanno a gonfie vele.

Tutto sembra filare liscio, ma il diavolo ci mette lo zampino e il diavolo di queste cose si occupa da tempi remotissimi: Alberto Sammaria confessa al commendatore di essersi innamorato di Rosina, e per questo motivo si sente costretto a dare le dimissioni. Il commendatore disperato, ma troverà una soluzione: convincerà sua figlia a sposare Sammaria. Dopo qualche traccheggiamento, la ragazza si arrende; ma un incubo turba i sogni del commendatore: che i suoi nipotini ereditino il difetto fisico di Sammaria. Il matrimonio si celebra, ma il commendatore non riesce a liberarsi dei suoi timori e avverte i giovani che è sua intenzione di invalidare le nozze.

Il lieto fine sorprendente non può mancare e ne deve pagare il comico e grottesco fio il Savastano che scoprirà di essere stato raggirato: Sammaria non è altri che proprio il giovane di cui Rosina era sempre stata innamorata e la gobba era solo un artificio per consentirgli di entrare nelle grazie del futuro suocero gabbato dalla gobba come contrappasso giudizioso per punirlo della sua superstizione. Ma l’autore ammicca, il grande Peppino occhieggia e sorride amaramente, ma sorride: tira i fili del pupo commendatore che cede all’amore dei due giovani, anche perché, pure se non è gobbo, Sammaria porta bene!

Di nostro ci mettiamo che Malvurio non portava male. Anche questo pupo vuole rispetto. Soprattutto in palcoscenico.

Quanto a noi, muoviamo i pupi con amore perche vivano il loro tempo sulla scena con il compito appassinante di fare un mestiere bellissimo: il teatro. In questo spettacolo si tende a recuperarne i segreti intramontabili, dalla Commedia dell’arte, all’Arte della Commedia. E poniamo la nostra scena in Italia, ovviamente, in quegli ultimi anni cinquanta che furono la vigilia della prosperità del Paese, in quegli indimenticabili anni in cui essere scanzonati non voleva per forza dire essere scostumati. La sola nostalgia potrà scaturire da questo, ma fermo resta l’intento di ridere dell’ignoranza e delle superstizioni sopportando l’urgenza della scaramanzia e ricordando il filosofo che, pazientemente sornione avverte: “Non è vero, ma ci credo”.

MICHELE MIRABELLA

 

fotoDal 25 febbraio al 2 marzo

FONDAZIONE DEL TEATRO STABILE DI TORINO

OPERETTE MORALI

di Giacomo Leopardi

con (in ordine alfabetico):Renato Carpentieri, Roberto De Francesco, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Giovanni Ludeno, Paolo Musio, Totò Onnis, Barbara Valmorin

adattamento e regia Mario Martone

scene Mimmo Paladino

costumi Ursula Patzak

luci Pasquale Mari

suoni Hubert Westkemper

dramaturg Ippolita di Majo

aiuto regia Paola Rota

scenografo collaboratore Nicolas Bovey

la musica per il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch

è di Giorgio Battistelli (Casa Ricordi – Milano)

esecuzione Coro del Teatro di San Carlo diretto da Salvatore Caputo

Giovedì 27 febbraio, ore 18.00

La compagnia incontra il pubblico. Ingresso libero

Ironico, arguto, sorprendentemente contemporaneo. Questo è Leopardi secondo Mario Martone, che – già regista della pellicola Noi Credevamo – continua il suo viaggio nell’800 italiano e nella sua antiretorica. Sfida vincente per Martone che da un capolavoro della letteratura italiana trae uno degli spettacoli teatrali di maggior successo degli ultimi anni, tanto da mettere in cantiere un prossimo film sulla gioventù del poeta recanatese con Elio Germano protagonista.

Operette morali (Premio Ubu per il teatro 2011 per la miglior regia) è frutto dell’adattamento  a quattro mani, con Ippolita di Majo, di 16 quadri tratti dall’opera che Leopardi scrisse tra il 1824 e il 1832. Sbarcano sulla scena, i temi più profondi del poeta – il senso della vita, la scienza e la natura, il libero arbitrio e il trascendente – ma in una lingua e con una struttura viva e moderna più simile alla commedia che al teatro classico.  Sullo sfondo di una scenografia immaginata dal grande artista Mimmo Paladino come una proiezione onirica in continua trasformazione, i nove attori sono presenze rubate alla casa del poeta e danno voce e volto a quei dialoghi che dopo oltre un secolo svelano la loro natura teatrale. La musica per il Coro di morti porta la firma del noto compositore Giorgio Battistelli, prezioso completamento di un cast d’eccezione.

Le Operette morali sono una raccolta di ventiquattro componimenti in prosa, dialoghi e novelle, che Giacomo Leopardi scrive tra il 1824 ed il 1832.

In essi troviamo l’anima più profonda dell’autore: il rapporto dell’uomo con la storia, con i suoi simili e in particolare con la Natura; il raffronto tra i valori del passato e la situazione statica e decaduta del presente; la potenza delle illusioni e della gloria. I temi affrontati sono fondamentali, primari: la ricerca della felicità e il peso dell’infelicità, la natura matrigna, la vita che è dolore, noia. In questo panorama di atmosfere astratte e glaciali la ragione si distingue come unico strumento per sfuggire alla disperazione.

Le Operette rappresentano una perfetta orchestrazione di toni sulla vita e sulla morte: nella visione leopardiana, l’uomo si muove all’interno di una natura cieca, dalla quale non può ottenere nulla.

Sprezzante verso l’idea di progresso, scientifico e spirituale, il poeta irride le conquiste

dell’umanità come pure finzioni, chimere di un progresso senza costrutto. Cosa rimane dunque all’uomo?

«L’idea di Mario Martone – scrive Ippolita di Majo, dramaturg dello spettacolo – di mettere in scena le Operette morali di Giacomo Leopardi, un testo fuori dal canone della letteratura teatrale, nasce dal serrato confronto con la cultura e con la storia d’Italia del XIX secolo che lo ha impegnato negli ultimi anni di lavoro in campo cinematografico. A monte sta l’urgenza, artistica e civile, di riandare alle origini della scrittura teatrale nazionale per interrogarsi sui suoi potenziali e i suoi limiti: da Alfieri a Manzoni, appunto a Leopardi. Le Operette morali offrono spunti di straordinaria efficacia eforza espressiva. L’idea di scrivere dei “dialoghetti satirici alla maniera di Luciano” nasce nel giovane Leopardi dal problema insoluto con la ‘drammatica’, ovvero con la scrittura teatrale tradizionalmente intesa: “io che non mi posso adattare alle cerimonie non mi adatto anche a quell’uso; e scrivo in lingua moderna”, fa dire infatti con orgoglio a Eleandro nel Dialogo di Timandro e di Eleandro. E ancora: “Ne’ miei dialoghi, io cercherò di portare la commedia a quello

che finora è stato proprio della tragedia cioè i vizi dei grandi, i principî fondamentali della calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie, le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie…”.

La forma dialogica consente inoltre a Leopardi una vertiginosa frammentazione dei punti di vista, e in quasi tutti i personaggi, che si susseguono come in un arsenale delle apparizioni, si riflette il suo versatile e molteplice ingegno, la potenza creativa delle contraddizioni che animano il suo pensiero e danno corpo alla sua folgorante ironia.

Si tratta di un testo che non si può definire teatrale in senso classico, ma che è stato pensato come una commedia, in una lingua e con una struttura così vive e moderne da far saltare i riferimenti drammaturgici del secolo in cui è stato scritto per approdare a una profonda consonanza con esperienze fondamentali del teatro del Novecento.

Con la messa in scena di Operette morali Mario Martone riprende il filo del suo spettacolo L’opera segreta (messo in scena al Teatro Mercadante di Napoli, nel dicembre del 2004), in cui la parte finale era dedicata al lungo soggiorno napoletano di Leopardi. Il progetto è quello di affrontare il testo nel suo insieme, operando dei tagli all’interno, ma preservandone la struttura complessiva: ilrapporto dell’uomo con la storia, con i suoi simili e in particolare con la Natura; il raffronto tra i valori del passato e la situazione statica e decaduta del presente; la potenza delle illusioni e della Gloria. Lo spazio scenico dove lo spettacolo da debuttato nel 2011 è quello raccolto della sala ottocentesca del Teatro Gobetti di Torino, dove, in una sorta di forma assembleare, hanno preso vita come in una visione magmatica e indefinita, gli dèi, gli spiriti e gli uomini che abitano la scena “arcana e stupenda”, ma anche irresistibilmente comica delle Operette morali».

 

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