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Altri Amori/Anteprima Garofano Verde

unnamed4 giugno 2014 ore 21

La notte poco prima della foresta

di Bernard-Marie Koltès

studio

con Pippo Delbono

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6 giugno 2014 ore 21

Thérèse e Isabelle

dal romanzo di Violette Leduc

studio

con Isabella Ragonese

e Roberta Lanave

adattamento e regia di Valter Malosti

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8 giugno 2014 0re 21

Caro George

di Federico Bellini

mise en espace

con Giovanni Franzoni

regia di Antonio Latella

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proiezione del film di Jean Genet

un chant d’amour

Il fronte dell’antiomofobia sta guadagnando in visibilità, sta combattendo violenze e pregiudizi, sta lottando per diritti civili, sta a volte registrando lo scandalo di alcuni arretramenti ma per fortuna sta anche conquistando legittimità, integrazioni e sempre nuovi spazi di cultura.

Ne è una testimonianza oggettivamente felice il sostegno pubblico che a Roma, per impegno prestato dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica della Capitale, una manifestazione di teatro legata alla drammaturgia LGBT riceve ormai da ben ventun anni, facendo leva su un insediamento operativo al teatro Belli, con un’estensione di credito, di immagine e di location che dal 2013 giunge istituzionalmente e parallelamente anche dallo Stabile cittadino. Accade infatti che dopo la serata unica ospitata e condivisa dal Teatro di Roma nel giugno dello scorso anno al teatro Argentina, col battesimo di Still Life di ricci/forte, lo stesso direttore artistico di allora, Gabriele Lavia, volle riconfermare una joint venture con la storica rassegna fondata su scenari di teatro omosessuale, riservando in questo fine di stagione un’in-tera settimana a una sorta di ouverture amplificata della manifestazione, iniziativa adesso prontamente confermata e adottata dal neo-direttore dello Stabile, Antonio Calbi.

La formula, in attesa di un prodursi di potenziali comunali per l’effettuazione di una normale programmazione del “Garofano Verde” nel dopo-estate, adotta ora il titolo di Altri Amori/Anteprima Garofano Verde.

Ci ispiriamo ad autori di riferimento e a registi che marcano stretto i linguaggi del teatro contemporaneo. Pippo Delbono s’accosta per la prima volta a Bernard-Marie Koltès, e studia, dice, legge, prende spunti dal monologo di culto La notte poco prima della foresta. Valter Malosti dischiude il mondo provocatorio e sincero di un’antesignana illustre d’una letteratura di sentimenti e di dialettiche lesbiche, e dirigendo un’attrice attenta al sociale come Isabella Ragonese (in scena con la giovane Roberta Lanave) adatta teatralmente, curandone la regia, il romanzo Thérèse e Isabelle di Violette Leduc, portavoce clamorosa e coraggiosa della sensibilità di donne per donne, destinataria di una dedica che Genet le fece coniando Les bonnes. E poi c’è sembrato stimolante creare un parallelo tra l’universo dello stesso Jean Genet, di cui facciamo vedere il breve film Un chant d’amour, e la dimensione di un’altra omosessualità carismatica, quella di Francis Bacon, in Caro George di Federico Bellini ad opera di Giovanni Franzoni diretto da Antonio Latella, una messa in parole della problematica del modello-partner del pittore, figura che drammaticamente si suicidò.

Tre preannunci, tre esperimenti, tre trattamenti del sapere omosessuale che prenderanno posto sullo “sperone” dell’Argentina, nel teatro pubblico più rappresentativo della città, per suggerire, speriamo, una “grande bellezza” di rapporti, nel cuore di Roma.

Rodolfo di Giammarco

Altri Amori

ANTEPRIMA “GAROFANO VERDE”

SCENARI DI TEATRO OMOSESSUALE

RASSEGNA A CURA DI RODOLFO DI GIAMMARCO

La notte poco prima della foresta

di Bernard-Marie Koltès

studio

con Pippo Delbono

Una sola frase di quaranta pagine, emessa quasi d’un solo fiato, senza quei punti fermi che minacciano d’interrompere il bisogno lucido e poetico di un getto di parole. Nella sua partitura senza soste, La nuit juste avant les forêts affermava un teatro riconducibile a una musica ininterrotta. Jean-Luc Boutté racconta lo choc emotivo che provò dando un’occhiata al copione. Decise lì per lì di metterlo in scena, affidandolo a Richard Fontana. Era il 1977, e Avignone riservò a Koltès un ingresso clamoroso nel mondo della scena francese. Da quel momento all’aprile dell’89, data della prematura scomparsa dell’autore a soli quarant’anni, questo testo affermerà, documenterà una voce lancinante e vertiginosa nella scrittura drammatica contemporanea, uno stato di grazia emarginato, tutt’uno con una cultura da Linea dell’Ombra. «Il mio reale milieu è una via di mezzo tra l’hotel per immigrati e l’hotel a ore. Le mie radici non esistono. A un dato momento, uno si sente bene nella propria pelle» confidò Koltès. E disse anche «Amo il crepuscolo, dove figura e immagini si distinguono di meno».

Crudele e generoso, lucido e ricco di utopia, con addosso la maschera appena matura di un adolescente di taglia forte pasoliniana, Koltès coltivò avidamente un gusto forsennato per il lirismo, fu nomade come Conrad, Melville e London, perseguì la costante dell’identità straniera, e questa Nuit… è un monologo che fila nervoso, complice, digressivo, ipotattico, visionario come una ballata. Vi si cantano “le vecchie, gli arabi, i mendicanti, i controllori, i poliziotti, i teppistelli tirati a lucido, lo schifo di odori, lo schifo di rumori, i litri di birra, la voglia di una stanza”, mentre incessantemente e stupidamente piove su una casbah metropolitana, sulle ronde degli uomini soli a piedi. Ed ecco distinguersi “le zone di lavoro, le zone per rimorchiare, le zone per le donne e quelle degli uomini, le zone per i froci, le zone della tristezza, le zone delle chiacchiere e quelle del venerdì sera”, e in questi apartheid aleggia la parabola del Nicaragua e di un vecchio generale i cui soldati prendono di mira “tutto quello che vola al di sopra del fogliame, che compare ai margini della foresta”. E con questa preghiera profana, con questo diario di un abbordatore di sbandati e inermi, con questo manifesto della solidarietà e del cameratismo, con questo inno alla latitanza e all’amore per ombre materne, e per compagni sotto la pioggia, con questo appello alle umane genti che si sanno, si fanno sapere e sentire, la passione errante di un Pippo Delbono ci sta tutta. A costo di metabolizzare, di delbonizzare il canto, il testo, l’inno, il flusso della Nuit… E per la prima volta Delbono affronta la voce di Koltès, accreditato dalla fiducia totale che gli tributa da anni François Koltès, il fratello anch’egli scrittore di Bernard-Marie, che ha scoperto l’arte libera di Pippo assistendo ai suoi spettacoli al Théâtre du Rond-Point di Parigi, dandogli assoluta carta bianca d’intervenire sulle opere del fratello scomparso, perché Delbono si avvicina alla verità che Bernard-Marie cercava. Una verità che sfugge sempre, che non è dicibile, che sta nascosta in un mare di parole di chi non è disposto a integrarsi e a emulare.

Altri Amori

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SCENARI DI TEATRO OMOSESSUALE

RASSEGNA A CURA DI RODOLFO DI GIAMMARCO

Thérèse e Isabelle

dal romanzo di Violette Leduc

studio

con Isabella Ragonese

e Roberta Lanave

adattamento e regia di Valter Malosti

una produzione Teatro di Dioniso con il sostegno del Sistema Teatro Torino

Nel maggio del 1954 Simone de Beauvoir presentò a Gallimard, dove aveva un grande potere, il manoscritto di un’opera intitolata Ravages, cioè Devastazioni. Era il primo vero romanzo di una scrittrice né giovane, né inserita nell’establishment letterario, la quarantasettenne Violette Leduc, amata da Cocteau e Genet, la quale aveva già dato alle stampe due romanzi brevi con un successo più di stima che di pubblico. Come i due precedenti e tutti quelli che seguiranno, anche questo libro incendia la propria materia autobiografica. In particolare all’inizio del romanzo si trovava un lungo capitolo, poi censurato, sulla reciproca iniziazione sessuale di due ragazzine in un collegio femminile, una passione erotica deflagrante che dura lo spazio di pochi giorni, esaltati e crudeli: una storia cruda e senza reticenze come quelle di Genet. La storia di piacere tutto al femminile della Leduc fu giudicata, diremmo oggi, sessualmente scorretta e suscitò lo sgomento dei suoi editori. Smembrata, riscritta, soprattutto castigata, la passione delle due collegiali avrebbe avuto una storia letteraria tormentata e mutila per quasi cinquant’anni, fino a quando cioè, nel Duemila, Gallimard è tornato sui suoi antichi passi tirando fuori la versione integrale di Thérèse et Isabelle: Thèrése non è nient’altro che il primo nome di battesimo di Violette Leduc, e l’autrice con grande tenerezza poetica e uno stile visionario e febbrile traduce in parole, come un funambolo, l’erotismo: “cerco di tradurre nella maniera più esatta… le sensazioni dell’amore… Spero che questo non sembrerà più scandaloso delle riflessioni di Molly Bloom alla fine di Ulysse…”.

Sorprende e incanta nelle due protagoniste femminili l’assenza di qualsiasi sentimento di colpa e l’estrema libertà di tono. L’omosessualità femminile qui non diventa né dramma, né oggetto di rivendicazione. La passione delle due adolescenti è semplicemente messa in scena per mezzo di una scrittura vibrante, originale e audace. Dal romanzo viene presentato un primo studio in cui Thérèse/Violette rivive nella memoria (anche del corpo) e a distanza di tempo, l’incandescente scheggia autobiografica.

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Caro George

di Federico Bellini

mise en espace

con Giovanni Franzoni

regia di Antonio Latella

stabilemobile Compagnia Antonio Latella

Nell’ottobre del 1971, a Parigi, una retrospettiva consacra Francis Bacon come uno dei più grandi pittori del suo tempo. Alla vigilia della mostra, George Dyer, amante e modello dell’artista irlandese, si suicida nella stanza d’albergo che ospitava entrambi.

Davanti ai dipinti che raffigurano George, Bacon rivive la relazione con il compagno, in un momento in cui trionfo artistico e fallimento esistenziale si confondono, diventando anch’essi, inevitabilmente, materia del dipingere.

Federico Bellini

Qui la cosa forte è la potenza del canto, un canto-testamento che ricorda il film Un chant d’amour di Jean Genet. C’è un rapporto diretto con la morte, sembra di stare davanti a una roulette russa, non sai se e quando il proiettile verrà sparato. E di genettiano, in Caro George, c’è il gusto del monologo santo e assassino, col protagonista che si scinde in due ruoli, e prima è Francis Bacon e poi s’identifica con la figura del suo amante. Con in più, direi, il senso del rischio e l’aura di fascinazione del poema Il funambolo scritto da Genet nel 1957, dedicato ad Abdallah Bentaga, giovane artista di circo che l’autore aveva conosciuto sul finire dell’anno prima, sottoponendo l’acrobata a uno spietato allenamento da funambolo nel corso delle loro interminabili peregrinazioni per l’Europa. Più tardi, nel 1959, nonostante una rovinosa caduta che richiese un intervento al ginocchio, Abdallah presentò il numero che Genet aveva ideato per lui al Circo Orfei e fu scritturato per una tournée in Kuwait, dove una nuova caduta segnò la fine della sua carriera, facendo dire tempo dopo a Genet «Tutto è andato in malora», tanto che il giovane nel 1964 inghiottì un flacone di Nembutal e si tagliò le vene. Anche George Dyer, partner e modello di Francis Bacon, considerò una “caduta” il fatto che l’artista amante non lo portasse con sé alla vernice della sua retrospettiva parigina, lasciandolo in albergo. E quando Bacon tornò nella stanza dell’hotel lo trovò morto suicida. Questione di ego, di ossessione artistica. Genet dipinge con la penna, Bacon dipinge coi colori, e le loro opere hanno in comune visceralità e intellettualità. Con esiti emozionanti, impressionanti, tragici.

Antonio Latella

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SCENARI DI TEATRO OMOSESSUALE

RASSEGNA A CURA DI RODOLFO DI GIAMMARCO

PROIEZIONE DEL FILM DI Jean Genet

Un chant d’amour

Un chant d’amour (“Un canto d’amore”) è in assoluto uno dei capisaldi del cinema gay. Colpito più volte da forti tagli censori, perché tacciato di pornografia, e circolato solo in proiezioni private o alternative, il film è definitivamente uscito dal suo oblio solo nel 1971 a Londra.

Prodotto grazie a Nikos Papatakis (il regista de Les equilibristes), è l’unico film di Jean Genet, lo scrittore maledetto autore di Querelle de Brest.

La vita di Genet, omosessuale e ladro, si è svolta al di fuori di ogni canone usuale e quando nel 1950 girò questo film era uscito di prigione (dove aveva trascorso molto tempo) da due anni, grazie all’interessamento di alcuni scrittori, come Cocteau o Sartre. Per lui la prigione era il luogo privilegiato del desiderio, dove la presenza di carnefici e vittime, di segregazione e di violenza, acuisce i sensi appagando come non mai ogni fantasia sessuale.

Muto ed in bianco e nero, il film è stato girato in economia e con discrezione (gli stessi nomi dei personaggi e degli attori sono particolarmente vaghi). Il fatto che sia ambientato in una prigione lo rende più che mai autobiografico (come del resto tutta la sua opera), una lirica e sensuale proiezione dell’immaginario fantastico di Genet. Ma è altresì, il trionfo visivo di ogni immaginario omosessuale, in cui amore e violenza, sesso e poesia si mescolano potentemente, in un insieme di immagini riunite analogicamente (e talvolta alogicamente) con grande libertà, quasi un universo simbolico a sé stante.

È un amore lirico nel sogno del tunisino, la sua fuga nei campi con il suo oggetto del desiderio, o i fiori di melo finalmente ghermiti; ma è un amore che si confronta con la violenza – il secondino che frusta e forse violenta il tunisino – e con il sesso, mai esplicito ma evidente in tanti simboli (la pistola nella bocca o la cannuccia con il fumo alludono ad una fellatio) e nella nudità dei personaggi, i cui corpi sono sfolgoranti di sensualità.

Il film si realizza in realtà soprattutto sul piano delle immagini e degli sguardi: immagini di corpi avvinghiati in marcati controluce, che ricordano le foto di Platt Lynes, e di sguardi rubati all’intimità dei prigionieri che lo spettatore, più voyeur dello stesso secondino, riesce a spiare.

fonte web: www.culturagay.it – recensione di Vincenzo Patanè

info: 06.684000346 • promozione@teatrodiroma.net

vendita on-line: www.teatrodiroma.net

orario spettacoli: ore 21 • biglietti € 15,00 – 10,00

 

 

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