Sette pezzi di carne al Teatro dei Conciatori di Roma

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fotoGli spettatori sono ordinatamente disposti lungo due lati di una lunga passerella, avvolti dall’oscurità totale, aggrediti dal caos sonoro di una litania crescente in cui si sovrappongono parole indistinte che sembrano esplodere in un urlo: ad uno ad uno i protagonisti, quasi come pezzi di carne mollemente adagiati sulla passerella, si animano e prendono vita, ansiosi di raccontarsi, di guadagnarsi uno spazio nella società.

È l’incipit, spiazzante e surreale, di Sette pezzi di carne lo spettacolo scritto e diretto da Riccardo Reim che indaga nel sottobosco di una Roma notturna popolata da emarginati (quasi tutte femminili le figure): punto di partenza e di chiusura, è l’omicidio di una barbona, abbrutita e quasi animalesca, che domina la scena sullo sfondo. Un omicidio per un cappotto, ma quasi pretestuoso, un po’ alla Gadda e al suo Pasticcaccio, utile per poter scandagliare i margini della società.

C’è la storia di Libeccia (la più completa, la più toccante forse), una pura di cuore, un’orfana abbandonata e cresciuta in un istituto di monache, caritatevoli (?) e severe che rievoca il suo passato colmo violenze psicologiche e fisiche, il cui massimo concetto di felicità consiste nel girovagare fra i corridoi dell’Ipercoop.

C’è la peripatetica laureata che sublima la propria violenza a suon di termini scurrili, la sbandata alla ricerca di un po’ di fumo, il ragazzo arrabbiato con il mondo intero che si prostituisce.

Tutti, a modo proprio, raccontano la loro storia e le loro parole, ora spietate, spesso violente, contrastano con il delicato tintinnio dei campanellini legati alle loro mani che rievocano fiabeschi pensieri in totale contrasto con l’atmosfera sinistra e surreale della scena.

Reim concepisce uno spettacolo brutale e surreale, onirico e violento, che avvolge il pubblico-spettatore (indispensabile lo spazio scenico raccolto e ad hoc) e lo coinvolge nel duplice ruolo di osservatore, ma anche di investigatore per capire la dinamica dell’omicidio di una barbona (che molto probabilmente resterà impunito) fra dissimulazioni e testimonianze dei personaggi, pretesto per la discesa agli inferi in un sottobosco violento specchio di un’umanità collocata ai margini della società.

Uno spettacolo fatto di parole che indaga senza falsi moralismi e con una certa violenza verbale sugli ultimi, gli emarginati della Roma notturna e disperata fatta di un’umanità di reietti e di abbrutiti. In scena i sette pezzi di carne, totalmente al servizio del testo, i bravi Valentina Ardinzone, Letizia Barone Ricciardelli, Emanuela Cacciaguerra, Danilo Celli, Chiara Di Pietro, Federica Lamedica e Maria Santirocco, aiutati dalle musiche originali di Raffaele Nicolì. In scena fino al 4 maggio al Teatro dei Conciatori di Roma.