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Gli innamorati

Foto di Fabio Artese
Foto di Fabio Artese

di Carlo Goldoni

drammaturgia: Vitaliano Trevisan

Regia: Andrée Ruth Shammah

Scene e costumi: Gian Maurizio Fercioni

Luci: Gigi Saccomandi

Musiche: Michele Tadini

Produzione: Teatro Franco Parenti

 

Personaggi e interpreti:

Eugenia: Marina Rocco

Fulgenzio: Matteo De Blasio

Conte Roberto/Tognino: Roberto Laureri

Lisetta/Clorinda: Elena Lietti

Ridolfo: Alberto Mancioppi

Flamminia: Silvia Giulia Mendola

Fabrizio: Umberto Petranca

Succianespole: Andrea Soffiantini

 

Gli innamorati, sostengono alcuni, nacquero dall’amore bizzoso di Maddalena Poloni e Bartolommeo Pinto, coppia romana che Carlo conobbe tra il 1758 e il 1759, tanto da ricordare nei Mémoires, riservandoli l’anonimato, “le loro liti, le loro grida, le loro disperazioni, i fazzoletti strappati, i vetri rotti e i coltelli lanciati”. È quindi la realtà quella che il commediografo vuole trasfigurare, a discapito dello stereotipo drammaturgico. Non c’è infatti un intreccio rilevante, l’ambientazione è secondaria e l’interazione tra i personaggi è minimale. Goldoni, in maniera inconsueta, concentra i suoi sforzi sui due protagonisti, Eugenia e Fulgenzio. Lei è una donna forte, malata di una passione che non trova i limiti della ragione, mentre lui è un maschio psicologicamente debole e assai legato all’onore. Gli amanti, persi come sono nei loro autoinganni e rosi da gelosie reciproche, risentono di quest’accecante e limitante immaturità sentimentale che impedisce la felicità e alimenta il litigio continuo: ogni parola viene fraintesa, ogni gesto è portato al parossismo, si grida, si piange, si tiene il muso e si stenta a credere persino alla bella verità. Eppure basterebbe così poco, pensa lo spettatore di fronte all’ennesima sfuriata della “crudelaccia” Eugenia. Il lieto fine giungerà, dopo lunghe peripezie e paradossi, grazie non solo all’intervento della sorella Flamminia, ma anche a una ritrovata razionalità da parte della protagonista.

Andrée Ruth Shammah, memore della lezione strehleriana, conosce bene l’importanza della semplicità, fondamentale a teatro perché permette ai personaggi di spiccare nella loro individualità, liberi da costrizioni registiche spesso controproducenti. In questo clima di leggerezza e sospensione, adeguatamente commentato dalle musiche di Michele Tadini, viene proposto il metateatro senza sconvolgere troppo il testo, adattato da Vitaliano Trevisan, con tanto di Goldoni che assiste alle prove della compagnia e gli attori che escono dal ruolo per commentarlo.

Marina Rocco è perfetta nella parte di Eugenia. Non lascia nulla al caso: le pose vezzose, i bronci, le manine che stracciano le vesti, i pianti e le risate… tutto è studiato nei minimi dettagli per ricreare il delirio amoroso. Ottimo Matteo De Blasio come suo corrispondente maschile, Fulgenzio. Si distinguono anche Silvia Giulia Mendola, una Flamminia materna giustamente esasperata dal carattere irriconoscente della sorella, e Umberto Petranca, un gustoso zio Fabrizio che altro non fa che parlare al superlativo. Bravi anche gli attori di contorno.

Le scene di Gian Maurizio Fercioni suggeriscono una graziosa classicità. L’azione si svolge tra mura rosa Tiepolo, un lacero tappeto a ricordare un salone settecentesco e tanti vestiti appesi a dei porta abiti. I costumi, declinati in varie sfumature di bianco, sprigionano freschezza, candore ed eleganza, effetti messi in risalto dalle luci calde e appropriate di Gigi Saccomandi.

Successo meritato per un allestimento che appaga l’occhio, seducendolo e mostrandogli, ancora una volta, quanto, nonostante trascorrano i secoli, le dinamiche amorose rimangano invariate.

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