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“I giganti della montagna” di e con Roberto Latini

Foto di Simone Cecchetti
Foto di Simone Cecchetti

Capita raramente, ma a volte succede. Succede che il teatro si avvicini così tanto alla poesia da condurre chi osserva in quel favoloso sogno fatto alla presenza della ragione di cui parlava Tommaso Ceva. Roberto Latini è riuscito, con I giganti della montagna andato in scena al Pubblico. Il teatro di Casalecchio di Reno (BO), a ricreare uno scenario poetico e onirico, in grado di connettere ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo. L’ha fatto prendendo in prestito il favoloso dramma incompiuto di Luigi Pirandello che lui stesso definì il trionfo della fantasia e della poesia, ma anche la tragedia della Poesia in mezzo a questo mondo brutale.

L’opera di Pirandello termina laddove il regista e attore Latini decide di iniziare il suo percorso in solitudine dentro questo luogo agli orli della vita. “Io ho paura”, questa è l’ultima frase pronunciata da Diamante, ed è anche la frase che dà inizio allo spettacolo, scritta in lettere cubitali sul velatino del proscenio. Quando il sipario si apre, tutto è nebuloso e indistinto. I velatini, posti su più livelli, rendono la scena ancora più incantevole e obnubilano il magma delle ossessioni, dell’inquietudine, delle visioni narrate e, nello stesso tempo, amplificano le parole, quelle significative, quelle che risuonano e vibrano sia nel testo pirandelliano sia nella messa in scena di Roberto Latini.

Tra fulmini, lampi e un tripudio vorticante di suoni che dà l’impressione, come suggerisce Pirandello nella didascalia, “che si stia superando un pericolo che non ci par l’ora che finisca, perché tutto torni tranquillo e al suo posto, come certi momentacci di follia che alle volte ci prendono”, una compagnia di attori su un carretto di fieno, guidato dalla contessa Ilse, giunge alla Villa “La Scalogna” popolata dal mago Cotrone e dagli Scalognati. Fantasmi, minacciose apparizioni, luci abbaglianti: a nulla servono gli artifizi congegnati per allontanare gli avventori, una compagnia di teatranti giunti alla Villa dopo aver girato vari teatri invano, con la ferrea volontà di recitare La favola del figlio cambiato, un’opera scritta dal poeta che rinunciò alla vita per amore della contessa.

In questo luogo magico, in cui si vive privati di ogni cosa tranne che della più importante, il tempo, “ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere”, uno ieratico Latini decide di mettere a nudo il suo corpo, di esporre la sua anima e la sua arte, in questo gioco, terribilmente serio, che è il teatro. Nessun orpello. Solo i microfoni che amplificano, distorcono, fanno riverberare la voce dell’attore che via via si trasfigura nei vari personaggi che animano la Scalogna, cambiando espressioni, toni, postura. Ed è proprio il percorso solitario dell’attore ad amplificare maggiormente gli infiniti sensi di questo vibrante e inquietante dramma pirandelliano. Unico aiuto in scena è il tappeto sonoro di Gianluca Misiti, a volte assordante e fragoroso, altre volte come una nenia che esalta i momenti lirici dello spettacolo.

E se è vero che i giganti fanno paura, con il loro incedere rumoroso e selvaggio, con la loro incapacità di amare la Poesia e l’Arte, è anche vero che il Cotrone rappresentato da Latini è anch’esso gigante, e quei trampoli con cui lo impersona rendono giustizia a chi ha deciso di vivere delle proprie chimere, rendendo la verità dei sogni più vera di noi stessi. Latini impersona l’anima, grande come l’aria, sollevata dalla terra che guarda, dall’alto, con tristezza e impotenza, ma pur sempre determinata a convivere con i sogni, la musica, la preghiera, l’amore, ossia tutto l’infinito che c’è negli uomini. Tutto ciò che conta davvero.

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