di Eugène Ionesco
adattamento: Valerio Binasco
traduzione: Gian Renzo Morteo
regia: Valerio Binasco
scene: Emanuele Conte
con Enrico Campanati, Elena Gigliotti e Franco Ravera
produzione Fondazione Luzzati, Teatro della Tosse, sala Campana
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Entrando nella sala dalla luce tenue troviamo già due dei tre personaggi che recitano quest’opera in un unico atto: il professore e la governante, che Binasco ha trasformato in un personaggio maschile, una sorta di factotum al servizio del primo. Entrambi sono immersi nella loro eterna quotidianità. Scossi inizialmente da piccoli cenni del capo, che muovono al ritmo di un ticchettio che solo loro possono sentire, si ritrovano, poco dopo, a fingere azioni comuni: così mentre il professore è intento a suonare un violino, il secondo brandisce immaginari ago e filo.
Quando il campanello suona e la porta viene “solertemente” aperta da Marius, il tuttofare, ci rendiamo conto che la scena, il salotto/ingresso della casa in cui vive il professore, anzi, presumibilmente, in cui stanno entrambi, è impregnata fin dall’inizio della tensione provocata da un’attesa. La ragazza, la nuova allieva del professore che stavano aspettando, è la prima a parlare, rompendo la sospensione in cui ci trovavamo e che gli uomini cercano dapprima di prolungare, mentre si presenta, attende, risuona, chiede ed ottiene di entrare, con una fresca, giovane energia.
La scena è composta principalmente dal salotto, ma apre ai nostri occhi ulteriori prospettive, come il bagno a cui il professore deve spesso fare visita (citazione della merdre dal Père Ubu di Jarry), la porta da cui Marius scompare e riappare sempre con una nuova faccenda da sbrigare, e l’uscio attraverso il quale entra la giovane, che ci fa presumere un esterno che però noi non vedremo mai, e lei non rivedrà più.
L’assurdo permea il testo nelle prolisse spiegazioni del professore e nelle richieste della ragazza che vuole prendere, appunto, alcune lezioni per specializzarsi in «scienza libera e totale, insomma, generale». Il comico si presenta nelle richieste di delucidazione da parte della ragazza: «professore, ho una domanda: non ho capito!» e anche noi non sapremmo certo ripetere parola per parola ciò che il professore ha detto, ma ridiamo.
La chiave di lettura che questa rappresentazione ci offre, però, non è né quella del Teatro dell’assurdo che porta in scena gli strascichi del secondo dopoguerra, né soltanto quella di un’opera comica. I personaggi sono pervasi da una profonda umanità e attraversati da diverse emozioni e pulsioni: la collera, sempre sull’orlo di esplodere, del professore, l’attrazione recondita che, probabilmente in modo reciproco, provano sia l’allieva sia il professore, l’uno verso l’altra, la preoccupazione di Marius che venga varcato il limite per approdare al peggio, e quella più che comprensibile della ragazza, per via della situazione in cui è capitata; e ancora la solitudine, stato che pare accomunare tutti i personaggi, e il dolore, forse causa della perenne rabbia che attanaglia il vecchio insegnante, e quello anche fisico di lei, in quel luogo dove è precipitata e da cui non riesce a scappare, per compassione; infine la violenza che si serve della forza delle parole e della persuasione per far soccombere chi, volente o nolente, si convince, mentre nemmeno scalfisce chi non ci crede.
La tensione crescente tende una corda sottile tra humor e le lacrime che alla fine rischiamo di versare, poiché è ormai chiaro che ci troviamo immersi in una trama complessa, fine, curata, di fronte a personaggi veramente umani, che si danno il cambio nel giocare alla vittima, al carnefice e allo spettatore.
Straordinaria l’interpretazione degli attori.