Tra le tragedie di Shakespeare il Macbeth è quella che più di tutte indaga le dinamiche del potere. Quel potere ambito che qui è reso nel massimo della sua crudeltà e spregiudicatezza, ma che nello stesso tempo isola e induce a un destino solitario colui che ne sente la brama. Quest’opera, fosca, colma di ambizioni, malvagità e complotti, rappresenta il primo reale contatto di Giuseppe Verdi con un testo di William Shakespeare, autore al quale s’ispirerà per struttura dei drammi, per contenuti e forme. Decima opera verdiana, il Macbeth debuttò in una prima versione a Firenze nel 1847, quindi a Parigi nel 1865 e alla Scala nel 1874. L’allestimento del Macbeth di Verdi firmato da Robert Wilson e Roberto Abbado, in scena al Teatro Comunale di Bologna fino al 17 ottobre, già rappresentato nel 2013, viene riproposto proprio in considerazione del successo, di pubblico e critica, riscosso.
La prima scelta registica di Wilson è stata quella di rimanere fedele al lavoro del compositore, rispettare il maestro ma nello stesso tempo cercare la propria strada, dare il proprio contributo è ciò che più preme al regista americano. Per fare ciò si avvale della sintesi dei diversi linguaggi dell’arte che in quest’opera è resa al massimo della sua espressione: teatro-immagine, scultura, installazione, disegno, gestualità, movimento, danza, musica, architettura s’incastrano in uno spazio di luce e di buio che si penetrano, si scontrano e si congiungono incessantemente in uno spazio che non rimane solo fisico, ma diviene mentale. I gesti degli attori sono ripetitivi. Ogni protagonista si muove sul palcoscenico come un automa, una marionetta. L’azione è frutto di una sintesi, una riduzione del linguaggio gestuale che accompagna, come in una danza, il ritmo della composizione. Quest’automatizzazione del gesto ha come risultato un’accentuazione degli eventi non attraverso l’enfasi, ma tramite la reiterazione che permette allo spettatore di captare meglio ciò che accade e di consolidarne il significato.
Questo minimalismo del gesto è accompagnato da un uso sublime della luce. Grandi protagonisti della regia firmata da Wilson sono, infatti, il buio e la luce che si contagiano a vicenda attraverso un gioco di contrasti e confluenze creando un’ambientazione ovattata, fumosa, torbida, nella quale s’inserisce perfettamente il gioco d’intrichi e di crudeltà dell’opera. Il buio invade la scena e la luce ne diventa antitesi, squarcio, lama, lampo, profezia in un’architettura giocata sugli estremi: luce e buio, conoscenza e delirio, vita e morte, avvolti tutti nella dimensione di un evento totale tra musica, parole e gestualità.
Molto affascinante è l’ouverture dell’opera nella quale compare Lady Macbeth dal volto livido, immersa in un’oscurità densa di presagi funesti, accompagnata da una falce di luna. All’improvviso la luce da fredda e algida diventa rossa, così come il volto della Lady. Un rosso divinatorio che lascia presagire tutti gli eventi nefasti che si susseguiranno. Le streghe compaiono subito dopo quest’apparizione per annunciare il loro vaticinio. Non sono più tre come nell’opera shakespeariana, ma sono un coro femminile di numerosi elementi, divisi egualmente in tre gruppi, un numero che deve assolutamente rimanere per la sua importanza simbolica. Tra i personaggi quello che, naturalmente, colpisce di più l’attenzione dello spettatore è senza dubbio Lady Macbeth che, ossessionata dall’idea di diventare regina spinge il marito a commettere i delitti più atroci. E qui il regista intende rimarcare ancora di più le sue caratteristiche di donna fredda, algida, dalla quale non trapela nessun turbamento, nessun senso di colpa.
L’orchestra, diretta da Roberto Abbado con grande maestria, accompagna il gesto accentuando i tempi e le dinamiche dell’opera, con un suono che avvolge e punteggia ogni azione. Le dinamiche musicali vanno dal più che pianissimo al più che fortissimo e anche i temi ritornato, così come le azioni, in una ripetizione ossessiva che vuole rimarcare i tormenti dei protagonisti.
Ed è il finale, con un inno che termina in gloria, il momento in cui, in quest’opera cupa e tenebrosa, si rivede nuovamente la luce.