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“Laika” di Ascanio Celestini. Uno spettacolo che ci ricorda che non esistono i ciechi, ma la cecità

fotoAndare a vedere uno spettacolo di teatro in un circolo Arci è sicuramente inusuale, ma in quest’occasione, anche se il luogo è un po’ caotico e dispersivo, si è rivelata una location più che adatta per Laika, ultima fatica di Ascanio Celestini, andata in scena nella sala Paradiso del circolo Arci Bellaria di San Lazzaro di Savena (Bologna). Essendo uno spettacolo che parla, tra le altre cose, anche di religione, di quella religione che affianca i bisognosi, non giudica ma osserva le brutture del mondo, mai luogo fu più indicato.

C’è sì la spiritualità, ma anche la scienza che si confrontano, con le loro tesi, i loro dogmi su un mondo di persone disagiate, piene di problemi da risolvere, di sofferenza e difficoltà quotidiane in cui, forse, l’unico assillo è di iniziare ogni giorno l’esistenza. Il nome della pièce, Laika, è un omaggio alle cavie umane che ogni giorno abbiamo davanti agli occhi, come la cagnetta russa lanciata nello spazio nel 1957 in nome della scienza e mai più tornata e, nello stesso tempo, una dichiarazione d’intenti di uno spettacolo che si muove in un’indagine tra il laico e lo spirituale.

Sarà proprio Celestini a impersonare un Gesù degli ultimi, con la sua camicia rossa, il cappotto lungo e i pantaloni logori. Cieco, questo Gesù vive in un appartamento di periferia, dal quale, grazie all’aiuto di (San) Pietro con cui dialoga per tutto lo spettacolo, “osserva” l’umanità che lo circonda, cercando di entrare in comunione empatica con essa, di scrutare le persone più vicine, per cambiare, se possibile, qualcosa in quelle vite, nella cogenza quotidiana e non nell’illusione di un miracolo. Alla fine, infatti, l’unico miracolo sarà quello della partecipazione, quando tutti i personaggi decideranno di manifestare contro le guardie per salvare la vita del barbone.

E così tutto il mondo è inglobato in quel parcheggio del supermercato, che si vede davanti alla finestra del suo paradiso-monolocale, un non luogo in cui la vita scorre sempre uguale, apparentemente, e spesso dura da sopportare, difficile da trascinarsi dietro. Protagonisti sono un facchino di colore, che in seguito a un incidente sul lavoro, essendo privo di ogni tutela è stato licenziato e si è ritrovato a vivere come un barbone all’ingresso del supermercato; una vecchietta con la “testa un po’ impicciata” a causa di una malattia neuro-degenerativa, una memoria scomparsa che la porta a sovrapporre la vita reale con quella immaginaria, permettendole di scoprire piccole cose meravigliose; una prostituta denominata così più per una convenzione della società che per una sua scelta personale e altri personaggi che si incrociano in questo microcosmo di solitudini. Commuovono, smuovono, fanno riflettere e anche sorridere le storie rappresentate da Celestini, con la sua capacità di raccontare l’ordinario e farci vedere quello che ogni giorno abbiamo davanti agli occhi ma che ci impediamo di vedere, forse per paura, forse per negligenza, forse per egoismo.

La messa in scena è scarna, fatta di pochi elementi. Un sipario vermiglio incornicia la scena e ricorda il teatrino dei burattini. La luce flebile delle lampade illumina lo spazio e alcune casse di plastica dura fungono da arredamento. Seduto in un angolo di questo microcosmo esistenziale Gianluca Casadei – il Pietro fisico, in scena, mentre la parola verrà data all’apostolo dalla voce fuori campo di Alba Rohrwacher – che con la sua fisarmonica punteggia il monologo, mettendo un po’ d’armonia nella dissonanza delle vite narrate.

Nonostante la cecità, questo Gesù, impersonato da Celestini, vede più di quanto ognuno degli spettatori presenti in sala riesce a fare e ci racconta una realtà che è sotto i nostri occhi, ogni giorno. Mi vengono alla mente le parole di Saramago: “Secondo me non siamo mai diventati Ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.

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