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L’ultima estate dell’Europa

fotoIl secondo appuntamento del ciclo de “Le Grandi Guerre” di questa stagione pucciniana, vede protagonista l’attore, scrittore ed alpinista Giuseppe Cederna. Noto al grande pubblico per le sue numerose interpretazioni cinematografiche, si presenta a Firenze nell’altra sua veste, quella di attore teatrale, con un lungo ed impegnativo monologo, accompagnato sul palco dalle musiche di Alberto Capelli (chitarra acustica, elettrica e percussioni) e Mauro Manzoni (oboe, sassofono e flauto traverso).

Molti gli studenti in sala, a conferma dell’importanza che riveste la commemorazione del Centenario della Grande Guerra: “Non è ovviamente una ricorrenza che va festeggiata o esaltata – afferma Cederna –,  ma è indubbio che questo devastante evento abbia inciso profondamente sui destini dell’Europa e dell’Italia in particolare, con conseguenze che ancora oggi difficilmente si rimarginano. È importante soffermarsi e meditare a lungo, specialmente per i più giovani, su cosa sia veramente una guerra, ora che il mondo sembra una immensa polveriera sul punto di esplodere. La guerra è molto più vicina di quello che pensiamo, la guerra dorme dentro di noi. Per questo, raccontarne gli orrori ma anche il desiderio e la capacità di riscatto, è doloroso e necessario. Con la pietà della memoria e la miracolosa potenza delle storie, l’uomo riesce a ribellarsi all’umiliazione del corpo e dell’anima. Anche nell’orrore, talvolta, riusciamo a trovare la nostra umanità e dignità più profonde”.

Nella pièce che viene portata in scena, Cederna narra con dovizia di particolari, il casus belli che diede il via alla Prima Guerra Mondiale, conflitto (fino ad allora) senza precedenti nella storia. L’attore è allo stesso tempo l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este ed i suoi attentatori attentatori bosniaci, Gavrilo Princip in particolare, riportando le loro sensazioni, le loro diverse paure, fino allo scoppio di quei due colpi di pistola dai quali, come effetto domino, tutto principia.

L’attenzione si sposta poi sul conflitto, sulla strategia italiana alla ricerca di ciò che più le conviene; una nazione che sembra estranea ai fatti, ma è solo apparenza, poiché l’opzione dell’interventismo è già nei cuori di molti da diversi anni; si cita Filippo Tommaso Marinetti, portabandiera del futurismo, movimento di inizio Novecento dove la guerra viene definita come un bisogno per lo spirito umano, una purificazione che permette e favorisce l’idealismo; si cita D’Annunzio, il quale scrive canti a sostegno di quelle fazioni che premevano per un intervento diretto dell’Italia nella guerra contro l’Impero Austro-Ungarico spostando l’orientamento dell’opinione pubblica, prevalentemente neutrale, verso l’ingresso nel conflitto; infine si dà voce ai soldati, ai fanti, agli ultimi, tramite le parole di illustri poeti e di racconti epistolari, come quelli del caporal maggiore Fausto Frascoli, alpino 22enne: una guerra, la sua, di soli venti giorni, combattuta alle pendici del Monte Nero.

Che cosa può significare la voce di un poeta in quell’inferno? Eppure, quelle sono le vere voci delle trincee e delle battaglie, le voce più umana e più giuste, che non si adeguavano ai clamori, alla retorica, ai “supereroismi” di quell’epoca; voci di una poesia fatta di sensibilità, di tormento, di ricerca, di passione e di patriottismo. Così, insieme al caporale Frascoli, si avviano alla guerra “sopra il selciato di cuori materni” anche i nostri Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda, Carlo Alberto Sallustri (Trilussa) a cui l’attore dà nuova vita attraverso i versi delle loro poesie, che si perdono nei frammenti di musica e silenzio che accompagnano la sua recitazione, concitata, sofferta, partecipe e personale. Lo spettacolo si chiude infatti con una nota quasi autobiografica, con un breve pezze scritto a quattro mani con Paolo Rumiz, dove Cederna stesso entra nello spettacolo descrivendo le sensazioni che ha provato camminando sulla sponda dell’Isonzo, scenario di battaglie e morte, sedendosi sui suoi argini ed immaginando di poter rendere così omaggio a tutti i fanti morti, seduti assieme a lui sul greto del fiume ad ascoltarlo. Fanti di ogni età, nazionalià, provenienza: “Eravate alti 1 metro e 50, pesavate meno di 40 chili, voi spettri, fanti, usciti dalle trincee ma io vi penso giganti, ciclopi di una razza estinta”.

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