Quando si entra in sala, i ballerini sono già lì, pronti ad accogliere il pubblico. Nel retroscena si sente il coro delle voci che tiene il tempo e, uno per volta, i danzatori valicano il fondale nero che separa il dietro le quinte dalla scena ed eseguono un movimento, sempre lo stesso, di accoglienza, quasi a voler dare il benvenuto al pubblico che ancora si sta sistemando in sala.
Così inizia il musical Sound of Music, diretto dal regista olandese Yan Duyvendak, andato in scena all’Arena Del Sole di Bologna nell’unica data prevista in Italia. Tante ragazze e ragazzi, ognuno diverso sia per aspetto sia per abbigliamento, ognuno con la sua personalità che s’intravede dal modo di danzare, di stare sul palco. Giovani pieni di vita e di energia che ci raccontano il mondo difficile in cui sono capitati, che narrano i problemi di questo pianeta ma anche la speranza che si cela dietro la loro gioventù e il desiderio di esserci e di partecipare a un possibile cambiamento di rotta.
Questo spettacolo ha la sua peculiarità proprio nella duplicità: da un lato abbiamo la formula del musical con il suo orizzonte estetico immediatamente riconoscibile e lieto, pieno di grazia espressa attraverso il corpo e le belle voci dei giovani performer. Cornice, questa, nella quale il regista olandese ha deciso di inserire temi ben più scottanti, con la volontà di generare una crepa e di indurre a una riflessione morale e politica. Ed è proprio per questo che nelle danze e nelle canzoni di questa scintillante commedia musicale si nascondono contenuti scomodi come l’esplosione di Fukushima, l’avanzata degli acquirenti cinesi in Europa, il riscaldamento del Pianeta, la tecno-dipendenza. Insomma molti argomenti che narrano ciò che sta succedendo al nostro Pianeta, segni evidenti di una caduta conclamata del sistema occidentale, che abbaglia con le sue infinite, spesso aleatorie, possibilità ma che in realtà ci opprime con i suoi modelli preconfezionati, con le industrie che inquinano l’aria che respiriamo fornendo ogni tipo di oggetto di cui sicuramente potremmo fare a meno, anche se ci inducono a credere il contrario. Ed è proprio nel contrasto, anche se alcune volte è un po’ dispersivo, e nell’intreccio tra virtuosismo e sregolatezza, caos e fragilità, che il regista rileva le contraddizioni della nostra società e invita il pubblico a tenere sempre viva la propria coscienza, il proprio impegno personale per risollevare questo mondo al collasso.
Ad aiutarlo in questo viaggio due eccellenti coreografi, Olivier Dubois – che lavora sulla ripetizione del movimento come forma allucinatoria – e Michael Helland che sviluppa un’organizzazione geometrica dei corpi e mette in gioco il processo d’improvvisazione insito nella danza d’avanguardia. Non meno importanti per la riuscita dello spettacolo il compositore Andrea Cera che s’ispira alle melodie dei più famosi musical americani e il poeta-filosofo Cristophe Fiat, indispensabile nella scrittura dei testi che, con il suo linguaggio spoglio e diretto, riesce a esplorare, con la grazia della poesia, le angosce contemporanee.
Nel finale tutte le dichiarazioni d’intenti sono espresse con la massima intensità visiva: tutti, e sono tantissimi, – dodici ballerini e cantanti della compagnia e numerosi altri danzatori invitati dalla Bernstein School of Musical Theatre – eseguono la coreografia finale molte volte. Mentre danzano, però, scendono dei drappi dorati realizzati con coperte isotermiche che occupano sempre più spazio e, i danzatori, sono costretti in uno spazio sempre più angusto, sempre più stretto e asfissiante, ma continuano la loro danza, con la stessa energia e lo stesso desiderio di occupare il loro posto, seppur piccolo, seppur sempre più ristretto. La metafora è presto detta: il luccichio dorato di quei drappi troppo assomiglia al mondo nel quale viviamo. Un mondo che apparentemente non ci fa mancare niente, ma che in realtà ci toglie sempre di più spazio, natura, aria, possibilità, certezze e sogni. Anche se c’è chi continua ancora a ballare. Per fortuna.