Melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave
Personaggi e interpreti:
Violetta: Irina Dubrovskaya
Alfredo: Fabrizio Paesano
Germont: Marcello Rosiello
Flora: Elisabetta Martorana
Annina: Sabrina Vianello
Gastone: Iorio Zennaro
Barone Douphol: Armando Gabba
Marchese d’Obigny: William Corrò
Direttore: Daniele Rustioni
Regia: Robert Carsen
Scene e costumi: Patrick Kinmonth
Light designer: Robert Carsen e Peter Van Praet
Coreografia: Philippe Giradeau
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro: Claudio Marino Moretti
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
————
Teatro quasi al completo e molti spettatori in maschera per questa Traviata dell’ultima domenica di carnevale a Venezia. La Fenice mette in campo con un cast non altisonante ma decisamente all’altezza della situazione e la regia di Robert Carsen che, nonostante le decine di repliche negli anni, sembra non aver ancora esaurito la sua bellezza.
L’esperienza di vedere un’opera alla Fenice nel periodo di carnevale comincia ben prima dell’apertura del sipario: tra le calli affollate, le maschere storiche adornate di pizzi e ricami preziosi, il profumo delle frittelle e la bellezza di una città millenaria che in questi giorni incanta ancora più del solito.
Tra le poltrone della platea si sente una vera babele di lingue: francese, tedesco, inglese, cinese, qualche russo, diversi sudamericani. Poi le luci si abbassano, il vocio si affievolisce e comincia il preludio, eseguito magistralmente, mentre si apre il sipario su un elegante ambiente domestico. Violetta è seduta sul suo letto, attorno a lei si avvicendano diversi uomini, porgendole del denaro che lei accetta con disinvoltura.
Comincia così la poesia del capolavoro di Verdi nell’interpretazione di Robert Carsen. Una produzione elegante, sobria e perfettamente aderente al libretto, ma allo stesso tempo estremamente moderna. Perché, in fondo, la storia scritta da Doumas figlio (La signora delle camelie), da cui è tratto il libretto di Francesco Maria Piave, è così moderna che, anche ambientandola nell’Italia dei giorni nostri, sarebbe sufficiente sostituire la tisi con un’altra malattia per renderla perfettamente verosimile.
D’altro canto la Violetta di Doumas è una Coquette, una prostituta d’alto bordo, che frequenta baroni e marchesi ma che finisce con l’innamorarsi di un giovane benestante. Oggi quindi non sarebbe tanto diverso il pregiudizio (forse solo più flebile) che nel secondo atto la insegue incarnato nella figura del padre dell’amante, fino a distruggere il suo fragile sogno d’amore, con un’azione moralizzatrice che, come nella miglior tradizione, interpreta e incarna un conveniente volere divino: “è Dio che ispira, o giovine, tai detti a un genitor”.
Eppure Verdi – uomo del suo tempo ma artista rivoluzionario sotto molti aspetti – porta lo spettatore a provare simpatia per quella Violetta tormentata in cerca di redenzione, che suscita empatia dal primo all’ultimo atto, grazie soprattutto alle stupende arie a lei dedicate, da quando “povera donna, sola e abbandonata” canta la sua iperbole introspettiva, fino al tragico terzo atto, dove si rende conto che “è tardi”, accompagnata da un commovente assolo di violino.
Un dramma che contrappone quattro aspetti, perfettamente evidenziati da Carsen: il denaro, onnipresente nella scenografia, l’amore tra Violetta e Alfredo, il moralismo bigotto del padre e infine quella voglia di redenzione della protagonista che si scontra con la realtà di un mondo incapace di perdonare, come a dire che, alla fine, la vita chiede sempre il conto.
In tutto questo complesso castello di emozioni Daniele Rustioni, maestro concertatore e direttore, ha dato un’interpretazione moderna e potente, enfatizzando gli accenti verdiani e i fortissimo, senza mai perdere di intensità in una interpretazione ricca di pathos e potenza, tanto che in alcuni punti – e questa è stata la vera pecca – ha perso l’equilibrio tra palco e buca, coprendo la voce dei cantanti con un’orchestra troppo protagonista.
Irina Dubrovskaya è stata una Violetta vocalmente agile, con un timbro incantevole e una buona tecnica, regalando alla platea un’interpretazione sentita, emozionante, delicata ed empatica. Una Violetta come non se ne vedono spesso, capace di emozionare e far vivere con sentito trasporto il dramma a tutti gli spettatori, esplosi più volte in sonori applausi a scena aperta, incantati dalla sua bravura e bellezza.
Fabrizio Paesano è un Alfredo giovane e credibile, anche se nel confronto con la collega soprano viene messo in ombra: vocalmente preciso, non possiede però un timbro memorabile. Comunque nel complesso una buona prova, quella del tenore napoletano, che assieme a Marcello Rosiello nel ruolo di Germont padre, leggermente sopra le righe rispetto agli altri, ma non tanto da risultare fuori luogo, ha contribuito alla buona riuscita dell’insieme.
Bene anche il reso del cast, ad esclusione di Elisabetta Martorana nel ruolo di Flora, che purtroppo non si è sentita affatto, immaginiamo a causa di una qualche indisposizione.
Il coro della Fenice, preparato dal maestro Claudio Marino Moretti ha dato prova di grande coesione, talento e precisione: una performance eccellente, dovuta sicuramente anche al numero di repliche di questa Traviata, che si protrae ormai da 13 anni, ovvero dalla riapertura del teatro dopo l’incendio del 1996.
Standing ovation per una Irina Dubrovskaya visibilmente emozionata e applausi lunghi e sentiti per tutti, in particolare per Daniele Rustoni.