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L’ultimo harem

Foto di Paolo Lamuraglia
Foto di Paolo Lamuraglia

Quello che ammalia Firenze da dodici anni è un harem esclusivo. Un harem che ha girato i teatri dell’Italia e del Vicino Oriente per raccontare la storia attraverso le favole che ne hanno suggestionato i personaggi.

Il tono di voce caldo e spezzato di Serra Yilmaz ci accompagna in un viaggio in Turchia, la terra che più di tutte unisce Oriente e Occidente, Asia ed Europa. Nel 1909, a Istanbul, una ragazza si prepara a ricevere la visita del sultano Abdul-Hamid, rassicurata e consigliata dalle parole di Seza (Serra Yilmaz), la başkalfa, cioè la più importante sorvegliante delle fanciulle che abitano l’harem, e di Sümbü (Riccardo Naldini), il capo degli eunuchi. L’incantevole Hümeyra (Valentina Chico) quasi si ribella all’obbligo di dover piacere al sultano, e quasi si ribella ad andare via quando questo viene deposto a seguito della rivolta dei Giovani Turchi. Non vuole passare il suo tempo a ricamare, lei “tanto intelligente quanto impertinente” e preferisce ascoltare favole da ripetere al sultano per imprigionarlo in una rete di racconti, come Sherazade nelle Mille e una notte. L’immagine non è quella di una donna fragile, certo con un ruolo e un destino diversi da quelli di un uomo, ma più libera di quanto si pensi nel progredito Occidente: ciò che in Turchia ci si aspetta da lei non corrisponde all’idea che gli occidentali hanno dell’harem, così lontano dalla nostra cultura perché diverso è il modo di approcciarsi all’altro, di affascinarlo. La parola è l’arma più temuta nel corteggiamento ed è premura di ogni donna curare l’arte del racconto almeno quanto il proprio corpo. Anche nella favola della başkalfa, Süreyya, la donna con le sembianze di uccello, sembra cedere all’amore del giovane Hasan, ma, appena può, indossa il suo mantello alato e scappa da un matrimonio che non le permette di volare dove vuole.

Un brusco cambio di scenografia e costumi catapulta il pubblico nella Turchia di oggi, assimilabile a una qualsiasi casa familiare allo spettatore, dove Nebilè e Güzin tentano di evadere da una quotidianità tutta occidentale che le imprigiona. Il loro affidarsi a fondi di caffè e medium rivela un impellente bisogno di fuggire in un mondo diverso, che sia quello delle star hollywoodiane o semplicemente la casa dei vicini, con quei rumori allegri che si sentono di qua dal muro. Anche nella moderna Turchia, in cui Ataturk è già un eroe nazionale, una favola in forma di sogno dà vita ai pensieri inquietanti di Güzin, consumandola fino a farla diventare delle dimensioni di un dito. La realtà di Nebilè supera perfino l’immaginazione, tanto che la stessa moglie che non può scappare dalla sua vita con in mano i sacchetti della spesa riesce ad evadere scavando un tunnel che sbuca nella casa dei vicini. Qui troverà una prigione buia, soffice, diversa, nascosta nel buio di una camera oscura.

Angelo Savelli fa tesoro del saggio di Ayse Seracgil e dei racconti di Nazli Eray e di Fatema Mernissi per costruire un testo nuovo con un impatto potente e calibrato, che l’attualità riconosce ogni giorno più essenziale. L’harem ha abbattuto i suoi muri, ha cambiato nome, si è svestito di ogni panno tipicamente orientale per diventare una gabbia d’oro ideologica in cui tante donne uccello sono ancora private della loro capacità di volare.

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