Melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave
Personaggi e interpreti:
Stiffelio: Stefano Secco
Lina: Julianna Di Giacomo
Stankar: Dimitri Platanias
Raffaele: Francesco Marsiglia
Jorg: Simon Lim
Federico di Frenge: Cristiano Olivieri
Dorotea: Sofia Koberidze
Maestro concertatore e direttore: Daniele Rustioni
Regia: Johannes Weigand
Scene e luci: Guido Petzold
Costumi: Judith Fischer
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro: Claudio Marino Moretti
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
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Una bellezza azzoppata quella dello Stiffelio in scena alla Fenice fino al 3 febbraio 2016, dopo 30 anni di assenza dal cartellone: una produzione che non convince fino in fondo, lasciando un certo amaro in bocca, quasi un senso di non compiuto, per un’opera che avrebbe meritato qualcosa di più.
Stiffelio comincia con una lunga sinfonia iniziale, note che profumano di valzer, un dialogo tra gli archi e i fiati, quasi un botta e risposta che si risolve prima in un assolo e poi in un’esplosione di sonorità, anticipando lo svolgimento della trama, ma anche tutta l’innovazione di una delle opere più censurate e travagliate del XIX secolo.
Proprio verso la metà di quel secolo, così gravido di cambiamenti, Giuseppe Verdi non è solo un compositore conosciuto in tutto il mondo, ma è prima di tutto un innovatore, che riesce a sconvolgere il pubblico grazie ad una capacità drammatica mai conosciuta prima e alla messa in scena di temi forti, a volte scabrosi, passando dal suo periodo “eroico” alla rappresentazione di temi borghesi, di vita quotidiana, traducendo in musica la piccolezza delle vicende umane e la loro meschinità.
Stiffelio si pone proprio al centro di questo cambiamento, mettendo in scena il dramma di un Pastore protestante tradito dalla moglie e tormentato dalla forte contrapposizione tra il suo desiderio di vendetta e lo spirito del perdono cristiano impostogli dal suo ruolo.
Il protagonista è un personaggio complesso, sconvolto da impetuosi moti interni: un esempio di umane virtù corrotte dai vizi, dalle passioni e dai sentimenti, dipinti da Verdi con pennellate potenti, alternando momenti corali con arie intimistiche e introspettive sugli splendidi versi di Francesco Maria Piave.
Un’iperbole introspettiva che, per la metà del XIX secolo, era non solo innovativa in quanto perfetto connubio di versi e musica, ma anche e soprattutto perché il tema trattato coinvolgeva un ministro religioso protestante, sposato e tradito.
Non a caso, infatti, la vicenda di quest’opera, rappresentata per la prima volta a Trieste nel 1850, fu molto travagliata: colpita dalla censura, che la amputò pesantemente, ebbe scarso successo, tanto che il Maestro la rimaneggiò più volte, fino a trasformarla in quell’Aroldo che andò in scena nel 1857 a Rimini.
Purtroppo quest’ultima produzione del Teatro la Fenice non rende del tutto giustizia a questo capolavoro verdiano poco conosciuto e rappresentato, e somiglia più ad un concerto in costume che ad un dramma in tre atti.
La regia di Johannes Weigand presenta infatti un’idea potente solo sulla carta, ma non altrettanto ben tradotta sul palcoscenico. Il regista tedesco mette in scena una comunità religiosa che somiglia ad una setta, attorniata da un alone oscuro, oppressivo, claustrofobico. Una comunità immobile nel suo misticismo fanatico, lontana dal mondo e isolata da tutto.
Proprio questo immobilismo si traduce in una staticità scenica, soprattutto nel primo, lungo atto, che rende l’insieme stucchevole e noioso, imprigionando il dramma ed impedendo il liberarsi dei tormenti dei protagonisti, così ben descritti nel libretto e così magistralmente tradotti in musica da Verdi.
I cantanti e il coro sono ingessati, nonostante le scene e le luci di Guido Petzold, molto essenziali, consentirebbero ampi margini di movimento.
Le scene sono infatti costruite solo con due enormi pannelli mobili che, grazie ad un gioco di luci molto ben congegnato, diventano una parete, un portone, la vetrata di una chiesa. Al centro del palco un pulpito, sopra al quale svetta un pinnacolo con tre fari bianchi.
I costumi di Judith Fischer contribuiscono a questo senso di oppressione, creando una dicotomia stridente tra stoffe grigie e stile in linea con l’epoca della trama, ma non con l’aspetto minimalista della scenografia.
Sebbene, come detto, si tratti di un’idea molto interessante, soprattutto per l’utilizzo ingegnoso della luce, purtroppo, durante lo svolgimento della rappresentazione, la regia diventa un noioso esercizio di forma. I cantanti entrano ed escono, senza che si svolga davvero un’azione, senza che la psicologia dei personaggi possa fuoriuscire da questo monotono e rigido schema.
Daniele Rustoni, maestro concertatore e direttore, ci regala però un’interpretazione equilibrata, godibile e raffinata, perfettamente in linea con l’opera, alternando momenti corali e d’insieme che richiamano il Verdi prima maniera, a momenti più simili allo stile maturo del Maestro.
Nel ruolo di Stiffelio, Stefano Secco offre un’interpretazione elegante ma potente e sentita, misurando fraseggi e accenti con il giusto equilibrio e precisione, restituendo tutta l’evoluzione psicologica, il tormento e i sentimenti contrastanti del pastore tradito.
Non altrettanto convincente Juliana Di Giacomo, nei panni di Lina, la moglie adultera: ad un’intonazione tutt’altro che precisa si aggiungono delle difficoltà palesi nei toni più acuti, che sembrano gridati e perdono qualsiasi sfumatura e morbidezza. Molto incerta anche la dizione, che diventa spesso incomprensibile, trasformando interi versi in un susseguirsi di vocali senza senso.
Dimitri Platanias, nel ruolo di Stankar, il padre di Lina, ha voce potente e sicura, ma non convince fino in fondo la sua interpretazione troppo urlata ed eccessivamente piatta.
Simon Lim, al contrario, ha una voce tonda e potente, mai sopra le righe: un godimento per le orecchie, nonostante la piccola parte assegnatagli. Francesco Marsiglia è un Raffaele perfettamente calato nel personaggio, anche grazie ad un cantato preciso ma ricco di sfumature. Bravi anche Cristiano Olivieri e Sofia Koberidze, rispettivamente nei ruoli di Federico di Frengel e Dorotea.
Il coro della Fenice, preparato dal maestro Claudio Marino Moretti, dimostra una bravura sempre maggiore, soprattutto negli spartiti verdiani, offrendo delle sfumature davvero godibili.