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“Una casa di bambola” di Henrik Ibsen

fotoMoltiplicata da articoli e comunicati sui media l’attesa per questa edizione di “Una casa di bambola era palpabile. Ieri sera infatti al Teatro Franco Parenti la sala grande si presentava gremita di personalità dell’upper-class culturale e non. Ora se si prende il volume degli applausi per misurare il successo di tanta attesa devo dire che il risultato non è parso complessivamente all’altezza delle aspettative. È significativo il fatto che i battimani alla fine del quadro e del primo atto siano stati molto tiepidi. Si dirà che alla fine della pièce gli applausi sono stati calorosi. Vero, ma è difficile capire quanta parte di quei battimani abbia avuto carattere rituale.

In ogni caso ne esce benissimo Andrée Ruth Shammah che ha il merito di aver tradotto e messo in scena e diretto uno spettacolo bellissimo da un punto di vista formale. Ha tagliato e asciugato il testo e l’ha necessariamente adeguato per evitare la compresenza dei tre personaggi maschili interpretati da un Filippo Timi uno e trino. Dopo di lei Gian Maurizio Fercioni autore di una scenografia di un’eleganza semplicità e funzionalità eccezionale. Applausi anche ai bravissimi attori. Marina Rocco ha dimostrato grande temperamento nell’interpretare l’ambigua personalità di Nora nelle varie sfaccettature: ha saputo essere dolce gattina nelle mani del marito, fingere in modo credibile mistificando anche a se stessa la realtà, togliersi alla fine la maschera e vomitare sul marito tutto quello che si era tenuta dentro in tanti anni di convivenza. Attrice di grande talento che a mio avviso dovrebbe rinforzare il tono della voce lavorando di più (come insegnano all’Accademia) sul diaframma. Mariella Valentini nella parte dell’amica Kristine merita un sincero applauso per la più bella voce del gruppo. Un Filippo Timi eclettico che prendendo da Fregoli e Brachetti l’arte del “trasformismo” interpreta tre personaggi Torvald (il marito di Nora tutto lavoro e morale), Krogstad (l’uomo che ricatta Nora a cui la vita non ha concesso nulla); Rank, (il medico che ama da sempre in silenzio Nora, forse l’unico personaggio “reale” che si congeda dal pubblico a causa della malattia che lo porterà alla morte, fino ad escludersi volontariamente). Timi è bravo nei rispettivi ruoli, ma non è l’istrionico attore che conosciamo, quello che strappa applausi da stadio e grida eccitate di fanciulle (e non solo). D’altra parte i personaggi non glielo permettevano anche se in un paio di occasioni, da vero performer, non se ne è lasciato sfuggire l’occasione. Voglio dire che se è vero che nessun attore sarebbe in grado di impersonare così bene i tre ruoli è altrettanto vero che tanti bravi attori sarebbero in grado di interpretare un singolo personaggio come, forse meglio, di lui. Insomma Timi fa miracoli, i personaggi che interpreta sono nelle sue corde, ma sono fuori dai suoi schemi di eccellenza. Rimane da esaminare ora il testo nei cui confronti gli applausi a mio avviso si fanno discreti. Vediamo di contestualizzarlo.

Henrik Ibsen scrisse la pièce nel 1879. Alla sua uscita, il dramma suscitò scandalo e polemica Oggetto della contesa non era il valore estetico del dramma, ma il problema morale che poneva Il dramma di Nora, quello di una donna costretta a vivere in una società a cui non sentiva di appartenere perché la considerava una mera bambola.

In realtà Nora è la massima espressione della finzione. Per tanti anni ha finto di essere debole di carattere, sottomessa al volere del marito che si illude padre padrone, lei in realtà si è comportata come le donne oggi, apparentemente fragili, succubi, innamorate, ma in realtà sono il mangiafuoco di turno, quello che tira i fili dei burattini. E quando il marito (venuto a conoscenza di un prestito ottenuto dalla moglie falsificando la firma del padre morente) dimostrerà la sua vera natura, più preoccupato di salvare se stesso e le apparenze mettendo a nudo la propria inconsistenza morale, Nora comprende che il suo matrimonio è stato solo una lunga finzione e si rende conto di essere vissuta fino ad allora in un mondo dominato dall’ansia di affermazione, poco attento ai rapporti interpersonali e che finisce con l’inghiottire l’universo interiore degli uomini. Nora vuole vivere pienamente e realizzarsi come persona, badando a se stessa autonomamente senza essere mai più la bambola di qualche bambino viziato “Ascolta, Torvald; ho capito in quell’attimo di essere vissuta per otto anni con un estraneo. Un estraneo che mi ha fatto fare tre figli..!”.

Ibsen fa di Nora una delle prime raffigurazioni letterarie della donna moderna: una “pre-femminista” capace di ribellarsi alle convenzioni e alla sottomissione sociale a cui è costretta. Del resto Ibsen individua col suo lavoro una insanabile frattura tra gli autentici valori della vita e le norme comportamentali imposte dalla società”.

Ora ci dobbiamo chiedere: perché una problematica così intensa e attuale non ha (a mio avviso) sollecitato reazioni appropriate da parte del pubblico? Perché la bellissima storia non aggiunge un solo tassello al mosaico che raffigura oggi la nostra conoscenza. È un piacere per la mente, ma non ci riscalda il cuore, non ci sorprende. In altre parole, non crea emozione. E senza emozione rimane solo la fredda bellezza del quadro (anche se ammetto, non è poco).

Bravi anche gli attori minori, Andrea Soffiantini en travesti è una balia di comica compostezza, la piccola Angelica Gavinelli di 8 anni (che suona l’arpa dal vivo) l’unica dei tre figli di Nora che appare in scena, Marco De Bella e Paola Senatore e Elena Orsini la cui muta immanente presenza in scena rappresenta il destino oppure (pallida e di nero vestita) la morte dell’amore e delle convenzioni sociali.

Gli elementi scenici sono curati da Barbara Petrecca, i costumi da Fabio Zambernardi, le musiche da Michele Tadini e il disegno luci da Gigi Saccomandi.

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