venerdì, Marzo 29, 2024

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Week-end

Foto di Pietro Pesce
pietro pesce

di Annibale Ruccello

regia di Luca De Bei

con Margherita Di Rauso, Giulio Forges Davanzati, Gregorio Valenti

scene di Francesco Ghisu

costumi di Lucia Mariani

luci di Marco Laudando

aiuto regia Peppe Bisogno

Prodotto da Fondazione Teatro di Napoli in coproduzione con Ma.di.ra srl

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L’interno in cui si svolge la vicenda si presenta secondo la regia di Luca De Bei di sghembo rispetto al pubblico e nel complesso mantiene molti dei particolari nel testo di Annibale Ruccello; l’arredamento retrò, la doppia tenda, la grande finestra, il divano, la televisione che è posizionata verso il proscenio, il tavolo, la compresenza di suppellettili vecchi e più moderni. L’assetto scenografico non è quasi mai secondario nei testi dell’autore stabiese. Il relativo contrasto fra carattere popolare e tratti raffinati è strettamente correlato ai suoi personaggi, specialmente se, come in questo caso, parliamo dei tre drammi che egli stesso definì “teatro da camera”. In Week-endla professoressa meridionale Ida trapiantata a Roma, così come l’Adriana in “Notturno di donna con ospiti” e la Jennifer delle “Cinque rose di Jennifer”, trasferisce tutta la sua condizione psicologica ed esistenziale di emarginazione nella sua abitazione in cui realtà e allucinazione coincidono sino a far emergere, attraverso alterazioni ontologiche, tutto il suo inconscio.

All’inizio dello spettacolo Margherita Di Rauso ci introietta nella psicologia di Ida attraverso delle micro-azioni apparentemente banali ma che ne caratterizzano teatralmente il personaggio; il suo claudicare – non solo handicap fisico, ma soprattutto causa di un insanabile conflitto interiore il suo sedersi, il suo togliersi le pantofole sotto al tavolo mentre accarezzando l’orlo di un bicchiere cerca di correggere i compiti dei suoi alunni; e poi, la riga centrale nei capelli, gli abiti neri e castigati che veicolano il suo ingabbiamento psichico a causa di un background culturale e familiare che l’ha inchiodata alla sua “diversità”; sono un significativo indugiare su tratti preponderanti della figura femminile ruccelliana, patetica e complessa, fragile e folle, che ricorda le tante donne dell’America povera e vitale messa in scena da Tennessee Williams.

Luca De Bei ci narra non solo di questo funambolico week-end di Ida che intercettando l’idraulico Narciso lo rende suo amante, sino a fare dell’esperienza erotica un crudele e folle atto vendicativo, ma soprattutto sulla falsa riga di una maniera cinematografica ci conduce come inconsapevoli voyeur entro le minuscole manie della protagonista, intese come veicolo dei suoi aspetti psicologici.

Un enorme specchio tappezzato da carta parati impone una lettura dualistica del personaggio irretito in un complesso di pulsioni erotiche e dall’ossessiva voglia di essere considerata donna “emancipata” da una parte, e dall’altra, invece, emarginata per la sua menomazione, il disadattamento alla grande città, la frustrazione della sua professione, il grado di istruzione che non ha estorto in lei il bigottismo e la paura del giudizio altrui. Un progressivo scindersi in un eccesso bipolare è la discesa verso la follia di Ida che si traduce teatralmente nell’iperrealista visionarietà delle azioni come del linguaggio.

A differenza del testo originale, De Bei invece della musica classica le fa ascoltare le canzonette francesi anni ’30-40 di Delyle o di Frèhel che la trasportano in una dimensione onirica nella quale s’incuneano i desideri del suo corpo che per una breve parentesi fuori esce dalla repressione accalappiando fantomatici amanti con la scusa di un guasto allo scaldabagno. Cosicché lo spoglia, lo riveste di abiti succinti sino a renderlo oggetto di desiderio, come la gamba offesa per la quale – così risuona la condanna materna – nessun uomo l’ha voluta.

Sogno? Realtà? Come per Jennifer ed Adriana, Ruccello sposta continuamente il confine fra realtà e immaginazione tessendo una drammaturgia originale entro la quale traslare il groviglio di impulsi e tabù femminili in proiezioni fiabesche sigillate dai caratteri linguistici e culturali del meridione. Ida racconterà il suo cunto, ancorerà ad esso il suo destino fisso ed immutabile e ne rappresenterà la sua eredità culturale e familiare.

Un’autentica realtà psichica compulsivamente nascosta, e simbolicamente, dalla doppia mantovana e laddove qualcosa di brutalmente ancestrale riproduce in maniera ossessiva la tentazione di soppressione del desiderio stesso.

Sullo sfondo rigagnoli di un mondo popolare di borgata dal quale emergono Narciso (Giulio Forges Davanzati) e Marco, il ragazzino scapestrato (Gregorio Valenti); oggetti erotici, capri espiatori, inconsapevoli adepti ad un rito inconscio che si ripete a mo’ di rivendicazione impietosa della propria infelicità che l’ha resa (sarà questa la sua vera menomazione?) inabile a desiderare ed amare liberamente.

Luca De Bei si rivela attento nel preservare del dramma l’aspetto linguistico che reca il pregio antropologico nell’opera di Annibale Ruccello, non trascurando la presenza sulla scena di simboli di cultura di massa (la radio, la domenica sportiva, il telefono, le canzonette) che incidono fortemente sul processo di distorsione dei suoi protagonisti; di conseguenza dirige una Margherita Di Rauso sensibile alle sfumature del personaggio e che lascia trasparire di Ida il molteplice dualismo. Ed è la dualità che Ruccello regala agli spettatori, facendo loro interpretare liberamente il destino delle sue creature.

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