I Teatri d’Imbarco rinnovano la collaborazione col campione Andrea Zorzi, già a fianco di Beatrice Visibelli nell’ultradecennale successo de La leggenda del pallavolista volante, mettendo in scena, in prima nazionale a Rifredi, il nuovo affascinante testo di Nicola Zavagli. Zorcus e Beazia accompagnano il pubblico in un magico viaggio alla scoperta delle Olimpiadi, per ammirare più da vicino la spettacolarità dei giochi e sbirciarne i retroscena. Sul palco insieme a loro anche Sara Palumbo e Matteo Battista, due danzatori dell’Accademia Kataklò che, attraverso le magnifiche coreografie di Giulia Staccioli, danno forma alle parole dei protagonisti-narratori. La scenografia è ridotta al minimo, così come i costumi, per accentuare la potenza evocativa del movimento, che da solo basta ad arricchire la nitida semplicità del testo. È un mens sana in corpore sano ripetuto nel racconto e testimoniato nella rappresentazione artistica, in un equilibrio di cui la cultura greca è maestra e il teatro degno continuatore. Ogni parola con la maiuscola letta su un libro di storia o di letteratura, si scolla senza fatica dalla pagina ingiallita e, sul palco, riesce a manifestarsi come entità reale: da Sparta a Olimpia, da Aristotele a Pindaro, da Milone a Nerone. Nella straordinaria fenomenologia dell’antico, si scoprono particolari inconfessati, dettagli torbidi e sfiziosi che rendono la Grecia più vicina a noi. Niente di tutto ciò che ci circonda è nuovo davanti alla civiltà ellenica e l’impressione sconvolgente che tutti i nostri pensieri siano già stati pensati secoli fa ci attanaglia la mente, mettendoci davanti all’imponenza del patrimonio culturale della grecità.
Tendendo una mano a Zorcus, a cui pesa avere tra i suoi trofei “soltanto” l’argento alle Olimpiadi, e una a Beazia, le cui doti di profetessa e di esploratrice curiosa si incontrano amabilmente in una comicità vaporosa, che non distoglie mai l’attenzione dal viaggio, ci incamminiamo a scoprire in cosa gareggiavano gli atleti, come si allenavano, e soprattutto con che spirito si faceva sport nell’Antichità. Una parola rimbomba per la sala: aretè, virtù. Per corrompere i giudici si dovrà aspettare i Romani, perché per i Greci il valore dell’agonismo è sacro. Partecipare, però, alle Olimpiadi non basta: le generazioni dei fenomeni – anzi, i singoli fenomeni, dato che i giochi di squadra erano lontani a venire – erano tali soltanto lo dimostravano ai giochi olimpici, vincendo. Chi non arriva primo, perde, e il secondo non ha niente in più dell’ultimo. L’ideale sportivo del divertimento, della soddisfazione nel raggiungimento di un obiettivo personale a prescindere dai risultati, è una contaminazione ottocentesca, francese, niente a che vedere con la concezione che regnava sulle sponde del fiume Alfeo.
Zavagli non si schiera dalla parte degli ambiziosi Greci né da quella dei mediatori francofoni, la sua non è una critica sull’evoluzione della mentalità sportiva, che senza alcun dubbio si è complicata fino a diventare banale, quanto una ricerca della componente umana dietre le marmoree sculture, il desiderio di scrollare la polvere dal dorso dei monumenti e comprendere davvero il mito greco, che è movimento prima che pensiero, vigore prima che poesia, mortalità prima che divinità.