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“Dipartita finale” di Franco Branciaroli

Foto di Umberto Favretto
Foto di Umberto Favretto

E poi un giorno vai a teatro e assisti a uno spettacolo che non solo fa riflettere sulla vita, sul tempo che passa, sulla nostra mortalità, ma che ha il grande pregio di riunire un pezzo di storia del teatro, grazie al cast di “Dipartita finale”, andato in scena all’Arena del Sole di Bologna. Quattro grandi attori, un concentrato di talento e di esperienza che cito in ordine anagrafico: Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Franco Branciaroli e Massimo  Popolizio.

Sulla scia di Beckett e parafrasando quest’ultimo, Branciaroli scrive un testo che gode della stessa atmosfera irrazionale e grottesca creando un gioco scenico pregno di riferimenti a testi teatrali e citazioni cinematografiche, letterarie e filosofiche: da Shakespeare a Calderón, da Pasolini a Nietzsche, da Bergman a Monicelli e tanti altri. Un testo lirico, spirituale ed evanescente per riflettere sul senso della nostra esistenza, sulla caducità della vita e anche sul concetto di eternità, un’illusione che accompagna gli uomini da secoli.

Protagonisti sono tre clochard che vivono in una fatiscente baracca nei pressi del Tevere e attendono, ognuno a proprio modo, la “Fine”, la loro dipartita: un’attesa perenne, infinita, nella quale si ha la duplice sensazione che nulla stia accadendo, proprio perché si aspetta, ma nello stesso tempo si vede tutto che inevitabilmente si trasforma, compreso chi attende, se non altro perché il passare del tempo muta ogni cosa e, come ci insegna Eraclito, nessun istante è uguale al precedente o al successivo, poiché tutto scorre.

Pol (Ugo Pagliai) dorme sempre, e trascorre gli ultimi scorci della sua esistenza in un letto sfatto che non abbandona mai, se non per defecare, Pot invece (Gianrico Tedeschi) non riesce a dormire mai, è sempre sveglio e attivo e si fa comandare dal suo amico. Fuori da questo piccolo microcosmo, una sorta di rifugio antiatomico, c’è la Terra, malata, come pure il Sole. Tutti gli uomini sono fuggiti alla volta di altri pianeti che regalano il sogno dell’immortalità.

Solo uno, “Il supino”, (Massimo Popolizio) ha rinunciato ad abbandonare la terra e ha preferito la mortalità a una vita sempre uguale a se stessa, come annuncia il messaggio che riceve quest’ultimo dagli eterni che, avendo riprodotto gli stessi meccanismi anche in altri pianeti, si annoiano e soffrono della loro imperitura condizione. “Il supino” che si rivela essere il più lucido dei tre, ha compreso che rincorrere la fatua eternità non avrebbe avuto alcun senso e, proprio per questo, annuncia in un licenzioso e sboccato romanesco di voler rimanere sulla terra e morire insieme ad essa, a fianco agli ultimi due relitti umani, con in mano il suo cognac, debellando ogni traccia sia di passato sia di futuro, eludendo ogni futile tentativo di dare un significato alla sua esistenza.

Ben presto sopraggiungerà in scena anche la Morte (Franco Branciaroli) stessa, tanto citata, contemplata e attesa dai protagonisti. La Morte, che prende in presto la mimica e l’accento del mitico Totò, è però un po’ sconsolata poiché sulla terra non ci sono più vite da falciare, tanto che la sua divenuta non spaventa più nessuno. E così stanca e demotivata chiede a Pot di fargli un bel caffè e di giocare una partita a carte. Ed è proprio qui che per la prima volta vediamo il Supino alzarsi e inscenare una lotta con la Morte. Quest’ultima, sconfitta e indebolita, decide che anch’essa vuole morire: si accascia nel letto insieme a Pol ed esala l’ultimo respiro.

Tutte le avventure dei protagonisti di “Dipartita finale” sono collocate in una dimensione in cui spazio e tempo si dissolvono e, tra dialoghi surreali e visioni nichilistiche dell’esistenza, viene sbattuta in faccia allo spettatore anche la vacuità dell’esistenza stessa, quasi a ricordarci, citando le parole di Louis-Ferdinand Céline, che «Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario: ecco la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose: è tutto inventato».

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