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Segnalazioni – Giugno 2016

ChaplinQuesta rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nel mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.

Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.

La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.

L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.

Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.

Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.

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Mesi precedenti: MAGGIO 2016

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fotoFIORE

Genere: drammatico

Regia: Claudio Giovannesi

Cast: Valerio Mastandrea, Daphne Scoccia, Josciua Algeri, Gessica Giulianelli, Klea Marku

Origine: Italia

Anno: 2016

In sala dal 1 giugno 2016

Il film: Daphne e Josh sono una Giulietta e un Romeo del terzo millennio, ma molto più reali, credibili e simpatici della celebre coppia shakespeariana. Il loro amore nasce non nei saloni sfolgoranti dei palazzi nobiliari o durante balli sontuosi, ma in un riformatorio in cui l’unico momento di comunanza tra i sessi è la festa di Capodanno; si sviluppa attraverso le sbarre delle finestre delle loro celle e si alimenta con biglietti, traboccanti passione e pudore, che viaggiano sotto i vassoi della mensa. Amore clandestino non per l’odio delle famiglie, ma perché il carcere non permette l’amore: scoperti sono, infatti, trasferiti in celle dalle cui finestre non possono più vedersi. In questa sua nuova opera Claudio Giovannesi conferma l’interesse verso l’universo degli adolescenti delle fasce più emarginate e problematiche come i giovani immigrati di seconda generazione dell’ottimo Alì ha gli occhi azzurri (un adolescente musulmano nato in Italia e in conflitto culturale con i genitori). Fiore (protagonista a Cannes 2016 nella sezione Quinzaine) è il ritratto di due giovani e di un ambiente: l’ambiente è un carcere minorile (nel film quello di Casal del Marmo nei pressi di Roma) con le diverse umanità dei carcerati e dei carcerieri e i giovani sono Daphne e Josh, due ragazzi arrestati per rapina. Giovannesi per trasferire sullo schermo in modo realistico la vita in un carcere minorile per sei mesi ha lavorato con i giovani detenuti di Casal del Marmo, organizzando laboratori e corsi teatrali e ha coinvolto molti ragazzi nella sceneggiatura (alcuni detenuti e componenti del personale del penitenziario interpretano se stessi nel film). Fiore è una storia d’amore, romantica ma non sdolcinata, tra due ragazzi che probabilmente hanno per la prima volta trovato un riferimento affettivo nella loro storia e se poco si sa della famiglia di Josh, salvo un fugace riferimento alla madre, si può invece capire perché Daphne sia cresciuta rabbiosa, solitaria e asociale: non ha una famiglia, salvo un padre (l’ottimo Valerio Mastandrea) appena uscito di prigione e che non è in grado di offrire alla figlia, ospitandola, un’alternativa al carcere: da ex detenuto non ha un lavoro stabile e vive nella casa della nuova compagna da cui attende un figlio. Il film ha tre punti di forza: le scelte registiche di Giovannesi tra cui quella di avere come protagonisti attori non professionisti, la fotografia di Daniele Ciprì che segue Daphne riprendendone da distanza ravvicinata rabbia e dolcezza, sgomento, delusione, speranza… e soprattutto l’incredibile performance di Daphne Scoccia al suo debutto cinematografico. Quello della Scoccia è un debutto assoluto: Daphne, infatti, non si era mai avvicinata alla recitazione, nemmeno in modo indiretto, fino a quando Giovannesi (che non riusciva a trovare l’interprete ideale) non l’ha scoperta casualmente nel ristorante in cui faceva la cameriera (attività che è tornata a fare finita l’avventura del film, con la giusta speranza – sua e nostra – di tornare sul set). Ragazza segnata da una vita difficile (da giovanissima al lavoro prima in fabbrica a infilare spiedini di pesce surgelato per poche centinaia di euro mensili e poi cameriera) come dimostra la grande melanconia dello sguardo, ha saputo trasferire con estremo equilibrio e straordinaria intensità la sua sofferenza al personaggio trasformando la recitazione in una forma di autoanalisi che le ha infuso sicurezze anche nel quotidiano. La splendida prestazione della Scoccia non deve però mettere in ombra la brillante prova di Josciua Algeri, simbolo di come il carcere minorile – se gestito con intelligenza e per recuperare e non per punire – possa produrre ottimi risultati. Algeri, oggi musicista e attore, ha avuto un’adolescenza che definire difficile è un eufemismo: a otto anni tolto ai genitori – peraltro protagonisti di vicende giudiziarie – ha iniziato un’odissea tra comunità e case famiglia accumulando verso la società rabbia poi trasformatasi in reati. Al Beccaria entra in contatto con il mondo del teatro e della musica: è la sua salvezza. Le occasioni bisogna saperle coglierle al volo, ma le strutture devono anche offrirle e non limitarsi a far scontare una condanna spesso in condizioni di vita poco degne, come a volte purtroppo si legge. Fiore è un film poetico e – lontanissimo da stereotipi e sentimentalismi – commuove e coinvolge fino al bellissimo finale che fa sperare in un avvenire diverso.

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fotoMIAMI BEACH

Genere: commedia

Regia: Carlo Vanzina

Cast: Ricky Memphis, Max Tortora, Paola Minaccioni, Emanuele Propizio, Gianpaolo Morelli, Neva Leoni, Filippo Laganà, Camilla Tedeschi, Nina Strauss, Carola Ripani, Maria Vittoria Argenti, Mariela Garriga, Alessio del Mastro

Origine: Italia

Anno: 2016

In sala dal 1 giugno 2016

Il film: I film dei Vanzina (fin da quando il padre firmava le proprie opere come Steno) non deludono mai le attese del pubblico: assistere a un prodotto divertente, che faccia passare un paio d’ore lontano dalle pesantezze quotidiane, che possa essere visto tranquillamente anche con i figli piccoli, che faccia sognare e in definitiva che porti una ventata d’ottimismo. Se si osservano, però, i loro film andando oltre le immagini accattivanti e si inquadrano le singole opere nel contesto generale della società e della cultura del nostro Paese, risulta evidente che pochi registi in Italia hanno saputo leggere e trasferire sullo schermo l’evoluzione della mentalità e dei desideri dei nostri connazionali giovani e meno giovani con la stessa semplicità, incisività e leggerezza. Non fa eccezione quest’ultima fatica di Carlo Vanzina ambientata a Miami, il più recente luogo-sogno degli Italiani che attratti dal sole (che però c’è anche in Italia), dalle spiagge, dal clima tropicale 12 mesi all’anno e dal mito del sogno americano a portata di mano vi sbarcano sempre più numerosi: sono circa 50.000 quelli che vi abitano. Miami beach è una commedia romantica con tutti gli ingredienti classici del genere specialmente quando i protagonisti sono ragazzi che approdano alla capitale della Florida per frequentare l’Università (che per molti non si identifica assolutamente con l’idea di studiare), ma è anche un divertente viaggio attraverso vari ‘esemplari’ della comunità italiana. Immobiliaristi dongiovanni, studenti più attenti alle feste che alle lezioni, fuoricorso ‘fancazzisti’ che vivono con i soldi inviati dall’Italia dal papà… sono alcuni dei divertenti personaggi che si agitano nei luoghi più ‘in’ di questa città vitalistica che trasmette vitalità. Filo conduttore sono le storie parallele di Luca e Valentina (due ragazzi italiani che volano a Miami – purtroppo per loro accompagnati dai genitori – per frequentare l’Università) e di Lorenzo, un padre alla disperata ricerca della figlia diciassettenne fuggita a Miami con due amiche coetanee per assistere al concerto dei deejay più famosi al mondo. Il dramma per il povero Lorenzo (non per lo spettatore) è che non conoscendo una parola d’inglese deve affidarsi a Bobo, giovane perdigiorno italiano… Non manca un finale a sorpresa.

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fotoTHE NICE GUYS

Genere: commedia noir

Regia: Shane Black

Cast: Ryan Gosling, Russel Crowe, Margaret Qualley, Kim Basinger, Ty Simpkins, Keith David, Yvonne Zima, Matt Bomer, Angourie Rice

Origine: Usa

Anno: 2016

In sala dal 1 giugno 2016

Il film: Ambientato in una Los Angeles degli anni settanta, il nuovo film di Shane Black ripropone l’invenzione del famoso Arma letale che in quegli anni portò Black a un enorme successo: anche in The Nice Guys è protagonista, infatti, una coppia di investigatori che più mal assortita e litigiosa non potrebbe essere immaginata: Jackson Healy (il massiccio Russel Crowe, attore di origine australiana), un detective dedito più a ragionare con i cazzotti che con raffinate analisi basate su deduzioni alla Sherlok Holmes, e Holland March (il canadese Ryan Gosling), padre single di una vivace tredicenne e investigatore dalla morale molto elastica, poco più di un truffatore. I primi contatti tra i due ‘eroi’ sono ovviamente di scontro, ma sono poi costretti a collaborare (pur tra liti e diffidenze continue) dal convergere degli strani casi cui stanno lavorando: Hearly deve coprire la volontaria scomparsa di una certa Amelia Kutner, mentre March indaga sul presunto suicidio della pornostar Mysty Mountains e sulla scomparsa di una sua sosia, guarda caso proprio Amelia Kutner. Le premesse già intricate si complicano ulteriormente quando nel corso delle indagini Hearly e March finiscono in mezzo a un complesso complotto che coinvolge pezzi non indifferenti del potere economico (l’industria automobilistica) e di quello politico (il capo del Dipartimento di Giustizia). Il tutto si traduce in un film ricco di dialoghi fulminanti, divertenti scazzottature e sparatorie dal ritmo travolgente e con scene d’azione mai fine a se stesse, tasselli che – tra un cazzotto, un non volontario bagno in piscina e situazioni al limite dell’assurdo – compongono il mosaico preludio della sorpresa finale. Film d’azione peraltro non privo di un sottofondo di critica sociale e politica che non risparmia né il potere né i movimenti di opposizione, anche quelli che per le finalità conclamate dovrebbero essere i più nobili. Un cast di grande professionalità tra cui spiccano la sempre affascinante Kim Basinger che disegna la misteriosa e ambigua Judith Kutner e la giovanissima Angourie Rice che nella parte della tredicenne Holly (la figlia ficcanaso e un po’ grillo-parlante di March) spesso ruba la scena a tutti. Film divertente e mai banale.

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fotoTRA LA TERRA E IL CIELO

Genere: drammatico

Regia: Neeraj Ghaywan

Cast: Richa Chadda, Vicky Kaushal, Sanjay Mishra, Shweta Tripathi, Nikhil Sahin

Origine: India, Francia

Anno: 2015

In sala dal 1 giugno 2016

Il film: Al suo primo lungometraggio, Neeraj Ghaywan ha realizzato un film importante (Premio Fipresci a Cannes 2015) che mostra le contraddizioni di una grande Nazione come l’India che da un lato si avvia a essere una delle maggiori potenze economiche a livello mondiale ed è all’avanguardia nelle tecnologie e nell’uso dell’informatica e dall’altro ha tuttora un sistema sociale bloccato sugli schemi della tradizione. Tra la terra e il cielo (Masaan il titolo originale) si articola su due storie principali sviluppate in parallelo che illustrano – più con lo spirito della cronaca che del pamphlet – uno scontro tra modernità e tradizione di cui protagonisti/vittime sono una ragazza e un ragazzo. Simbolica è la località dove le vicende sono ambientate: l’antichissima (più della storia secondo lo scrittore Mark Twain) città sacra di Varanasi (conosciuta anche con il nome inglese di Benares) che sorge sul sacro fiume Gange, centro di studi teologici e una delle sette principali mete di pellegrinaggio per chi pratica la religione induista (oltre l’80% della popolazione. Gli altri culti principali sono Giainismo, Sikhismo e Buddismo). La religione ha un ruolo centrale nella vita quotidiana degli Indiani e ne regola ogni momento fondamentale con codici, riti e cerimoniali che determinano un sistema sociale molto complesso. Il Gange, attraverso il bagno sacro, è la via per accedere da vivi alla purificazione e alla possibilità dopo la morte, se si è condotta una vita virtuosa, di reincarnarsi in una classe superiore. Il rito di passaggio è la cremazione. Gradinate in pietra (ghat) conducono agli argini del fiume in cui s’immergono i fedeli in preghiera e sui ghat avvengono le cremazioni che – considerate atti impuri – sono riservate agli intoccabili (dalit cioè oppressi). La società indù prevede quattro caste associate a categorie socio-professionali (Brahmani, la più alta, riservata a sacerdoti e insegnanti, Kshatriya a sovrani, principi e guerrieri, Vaisya a commercianti e agricoltori e Shudra ai servitori) e i fuori-casta degli intoccabili (vi appartiene il 25% della popolazione) cui sono destinati i lavori più umili e che sono esclusi dalla sfera sociale. Protagonisti delle due storie sono Devi e Deepak. Devi (un’eccellente Richa Chadda) – una ragazza istruita che vive con il padre, un ex professore che mantiene la famiglia vendendo servizi funerari su un ghat – ha deciso di fare l’amore con il ragazzo che le piace. La modernità dell’India su questo tema lascia il passo agli aspetti più ancestrali di una tradizione che vieta rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, rigorosamente combinato dai genitori rispettando l’omogeneità di casta. Trasgredire significa disonore nei confronti della società, emarginazione fino al ripudio da parte della famiglia e a volte il suicidio. Nonostante le precauzioni, una spiata consente alla polizia di irrompere nella stanza occupata dai due giovani che sono vittime della violenza degli agenti. Al regista interessa mostrare la dignità e il coraggio con cui la ragazza affronta la società e il padre che – pur non capendo – cede al ricatto di un poliziotto corrotto per evitare l’apertura di una pratica che disonorerebbe figlia e quindi la famiglia. Splendida la sequenza finale tra padre e figlia riavvicinati da questo percorso di sofferenza. Deepack, invece, è uno studente che sta per laurearsi in ingegneria innamorato e riamato da Shaalu, ma al loro amore si oppone la staticità sociale. Deepack è un intoccabile, mentre Shaalu appartiene a una casta superiore: entrambi sanno che dovranno avere molto coraggio perché il loro amore è contro tutte le regole. Il regista mostra come gli anziani siano mentalmente così succubi al sistema da rifiutare qualsiasi mutamento, anche in meglio: Deepack ha il principale ostacolo nel conseguire la laurea nel padre che vorrebbe che il figlio proseguisse la sua attività di cremare i morti e continua a distoglierlo dagli studi per farsi aiutare. Su queste due vicende s’innestano poi altre storie di ordinaria miseria economica (i bambini che per pochi spiccioli rischiano la vita tuffandosi ripetutamente per raccogliere le monete nel fiume e la corruzione di chi dovrebbe tutelare la legge, il diritto e i cittadini) e culturale (una società patriarcale e misogina in cui l’eguaglianza di genere è spesso vista ancora con diffidenza). Un film amaro, ma intriso di speranza: giovani come Devi, Deepack e Shaalu che lottano non con i proclami, ma con le azioni quotidiane per essere al passo con il presente anche nei diritti civili saranno sempre più numerosi e rimuoveranno le staticità ancestrali perché la Storia è con loro.

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fotoIN NOME DI MIA FIGLIA

Genere: drammatico

Regia: Vincent Garenq

Cast: Daniel Auteuil, Sebastian Koch, Marie-Josée Croze, Jean-Pol Brissart, Wolfgang Pissors, Emma Besson, Christelle Cornil, Lilas-Rose Gilberti, Christian Kmiotek, Serge Feuillard, Fred Personne

Origine: Francia/Germania

Anno: 2016

In sala dal 9 giugno 2016

Il film: “Tratto da una storia vera” recita la locandina del film, ma in realtà In nome di mia figlia è la cronaca di uno dei casi giudiziari più appassionanti per l’opinione pubblica francese coinvolta a livello emotivo e patriottico. Si tratta della lotta solitaria condotta dal 1982 al 2012 da André Bamberski (oggi ottantenne) per ottenere giustizia per la morte della quattordicenne figlia Kalinka avvenuta dopo aver subito violenza dal patrigno Dieter Krombach, noto e affascinante medico tedesco. La morte di Kalinka avviene in Germania, dove la ragazza si è recata con il fratello minore per una vacanza prima di iniziare l’anno scolastico a Tolosa. Bamberski non è convinto dalla ricostruzione degli eventi fatta da Krombach e avvallata dall’ex-moglie (da cui aveva divorziato nel 1975 a causa della relazione con l’affascinante medico) e pervicacemente richiede i verbali dell’autopsia che appaiono stranamente evasivi e altre perizie. Condannato in contumacia in Francia, Krombach resta libero in Germania che non acconsente all’estradizione. La lotta solitaria di Bamberski (l’unico aiuto è di un brillante avvocato, anche lui solitario) continua fino a divenire un’ossessione cui sacrifica la vita sua e delle persone a lui vicine come la nuova compagna e il secondo figlio. Poiché per le vie legali non riesce a ottenere nulla Bamberski fa rapire Krombach portandolo sul suolo francese dove lo fa arrestare. Finalmente il medico sconta la sua pena. Film avvincente (più per le atmosfere che per la vicenda) soprattutto per l’eccezionale interpretazione di Daniel Auteuil che disegna l’evoluzione psicologica e caratteriale del protagonista che passa da una vita serena scandita da famiglia e lavoro (per lui strettamente interconnessi) alla disperazione per la morte della figlia (vedendo per di più impunito l’artefice) passando per il dolore del tradimento della moglie. La prova di Auteuil è ancor più rimarchevole se si pensa che interpreta un uomo che esiste realmente ed è conosciuto dal pubblico per cui le peculiarità psicologiche e caratteriali non possono essere tradite o modificate per un risultato ottimale. Un personaggio che per la sofferenza provata e per la sete di giustizia (che pare, però, a volte la maschera di un desiderio di vendetta, non solo della morte della figlia) rischia di divenire una specie di eroe, ma anche – per il rapimento di Krombach – un incitamento alla giustizia-fai-da-te: ad Auteuil riesce il miracolo di evitare di farne un vendicatore solitario da western giudiziario, rendendolo un uomo a volte simpatico, a volte detestabile e inquietante, evidenziandone sempre l’assillo del dolore che lo ha accompagnato per trent’anni e probabilmente lo accompagna ancora. Altro punto di forza del film è la regia di Garenq (alla quarta prova dopo Comme les autres, Présumé coupable e L’enquête) – giustamente considerato l’erede dell’indimenticabile André Cayatte, specialista in opere in cui il singolo si batteva contro le storture della giustizia – sobria, chiara nella puntualizzazione delle date ed efficace senza sacrificare l’emotività. Ha, però, un limite nel non chiedersi se sia etico il comportamento di un uomo che per raggiungere il proprio scopo – anche se giusto – ricorre all’illegalità e ignora e sacrifica esistenza e affetto di quanti gli sono vicini e lo amano. Inoltre Garenq cura (splendidamente) la psicologia di Bamberski, ma trascura quelle dell’ex-moglie e di Krombach ridotti a stereotipi. Un film comunque da non perdere se non altro per l’indimenticabile prova di Auteuil e perché porta a interrogarsi sulla liceità di ricorrere a ogni mezzo per ottenere una finalità positiva. La mia risposta è no.

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fotoUN AMERICANO A PARGI

Genere: musical

Regia: Vincente Minnelli

Cast: Gene Kelly, Leslie Caron, Oscar Levant, Georges Guétary, Nina Foch, Ann Codee, Eugene Borden

Origine: Usa

Anno: 1951

In sala dal 9 giugno 2016

Il film: È emozionante rivedere dopo circa sessant’anni un film e provare quasi le stesse emozioni di allora, anche se oggi si è catturati meno dagli aspetti melodrammatici della storia e più dalla scansione artistica delle diverse componenti, perfette tessere di uno splendido mosaico. Si tratta di Un Americano a Parigi, uno dei capolavori di Vincente Minnelli, giustamente considerato un maestro della commedia (non solo musicale) e del melodramma. La commedia musicale è uno dei generi classici del cinema Usa (e non solo) e protagonista del debutto del sonoro nel 1927 con Il cantante di jazz (in realtà il film diretto da Alan Crosland e interpretato da Al Jolson conteneva oltre nove canzoni musicate e cantate solo poche frasi di dialogo: era però l’inizio di una nuova era). L’attuale musical nasce da un’intuizione di Arthur Freed (nato Grossman, fu attore, cantante e produttore per molti anni della MGM, specialista in commedie musicali) e ha trovato il suo maestro in Minnelli che ha firmato molti tra i film di maggior successo (non solo in biglietteria): basti pensare a Gigi (1958) con cui ha vinto nove Oscar compreso quello per la miglior regia. In quanto a Oscar anche Un Americano a Parigi ha un bel palmarès: sei. Minnelli utilizzando ingredienti certamente non originali (il giovane pittore squattrinato, la ricca signora che cerca di conquistarlo facendo la mecenate, il protagonista che s’innamora di una commessa promessa, ma lui lo ignora, al suo miglior amico…) è riuscito a realizzare un film avvincente in cui ogni scena coinvolge ed esalta occhi e orecchie dello spettatore. In una Parigi ricostruita in studio a Hollywood (o forse proprio per quello) si alternano Montparnasse, il lungo Senna… ‘quadri’ che sembrano uscire dal pennello dei grandi pittori francesi (da Toulouse Lautrec a Renoir) e sul cui sfondo ballano divinamente Gene Kelly e Leslie Caron sulle note romantiche di un altro capolavoro: le sinfonie di Gershwin ispirate dal periodo vissuto nel milieu artistico di Parigi alla fine della prima guerra mondiale. Esperienza traslata nel film al personaggio di Jerry Mulligan (Gene Kelly). A distanza di tanti decenni, resta eccezionale e forse ineguagliato il lungo balletto (circa venti minuti) cuore del film, ovviamente su una meravigliosa musica di Gershwin, musicista che solo qualche purista con la ‘puzza al naso’ può non considerare tra i maggiori compositori del ventesimo secolo. Tra gli aspetti secondari di quest’encomiabile iniziativa di Valerio de Paolis che ha restaurato il film e l’ha immesso nella normale programmazione, vi è quello di rivedere (per noi che c’eravamo) costumi, abitudini e mentalità (anche in una città all’avanguardia come Parigi) di quegli anni che oggi appaiono infinitamente lontani (e non lo sono) mentre per quelli nati dopo è un’occasione per conoscere una quotidianità che nessun libro di storia descrive. E anche questa è una funzione del cinema.

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fotoCALCOLO INFINITESIMALE

Genere: drammatico

Regia: Enzo Papetti, Roberto Minini-Meròt

Cast: Stefania Rocca, Luca Lionello, Manuela Tadini, Nino “Cicero” Utano, Giulio Taranto, Andrea Fabbricino

Origine: Italia

Anno: 2016

In sala dal 16 giugno 2016

Il film: Calcolo infinitesimale è di difficile catalogazione nelle usuali categorie cinematografiche a cominciare dal pubblico cui intende rivolgersi: “un pubblico esigente” lo ha definito Papetti, ma diverso o almeno più ampio e composito di quello che frequenta assiduamente (o unicamente) i cinema d’essai. La regia a quattro mani vede insieme Enzo Papetti (non più giovanissimo, è del 1943) – soprattutto studioso di storia e teorie del cinema e autore di saggi e articoli monografici – e Roberto Minini-Merot (classe 1959) studioso di filosofia e sociologia dell’arte e della comunicazione e tra l’altro autore di oltre 350 docufilm su Paolo Fresu, musicista e autore di molti brani della splendida colonna sonora: tra le migliori ascoltate in questa stagione. Con queste premesse Calcolo infinitesimale non può che essere un film diverso che logicamente può piacere o meno, ma non lasciare indifferenti. Originale e complesso fin dal titolo che richiama un concetto filosofico-matematico che guida la strategia di inganni, seduzioni, apparente indifferenza e lampi improvvisi di (apparente) sincerità dei due protagonisti Roberto Pistis e Valeria Hostis. I due ovviamente non sono come appaiono: Pistis misterioso scrittore cinquantenne che dopo il grande e perdurante successo del suo primo romanzo (rimasto unico) scritto in gioventù si è ritirato a Stromboli dove vive in una bella casa familiarizzando con la gente del posto e Hostis – giornalista che collabora con le maggiori testate internazionali – alla ricerca di un’intervista-scoop. Luca Lionello e Stefania Rocca sono i due interpreti e rappresentano uno dei motivi per vedere il film: sul ring dell’incontro/scontro dei due protagonisti si muovono come due fiorettisti fornendo un’interpretazione tutta sfumature e riuscendo a far percepire allo spettatore il sospetto che ciò che vede nasconde un’altra verità che pian piano emerge. Forse. La loro è una prova eccellente anche nei cammei degli altri personaggi (da loro interpretati) che scandiscono i racconti (veri? inventati?) del loro passato. Alle loro interpretazioni si deve l’atmosfera di mistero e incertezza che avvolge lo spettatore, suffragata dal gioco dei piccoli indizi (sparsi con sequenze-flash dalla regia) che percepiti inducono a leggere quanto si vede in una chiave diversa da quella che vuol sembrare evidente. Calcolo infinitesimale è un film, anzi un gioco intelligente in cui lo spettatore deve essere attivo e non abbandonarsi sulla poltrona del cinema mettendo a riposo anche il cervello.

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fotoPASSO FALSO

Genere: suspense

Regia: Yannick Saillet

Cast: Pascal Elbé, Laurent Lucas, Caroline Bal, Arnaud Henriet

Origine: Francia

Anno: 2014

In sala dal 23 giugno 2016

Il film: Per il suo lungometraggio d’esordio il cinquantenne Yannick Saillet – già assistente di registi come Margarethe Von Trotta, autore di circa 160 video musicali anche premiati a livello internazionale e collaboratore per la pubblicità con primari marchi quali Coca Cola o Chanel – ha scommesso su un soggetto quanto mai difficile e impegnativo. Scommessa vinta solo in parte anche se è riuscito a creare grande suspense praticamente senza il supporto dell’azione. La vicenda si sviluppa nel deserto afghano (in realtà il film è stato girato in Nord Africa) in una normale giornata di quella guerra che non si è certamente fermata con la ‘liberazione’ della capitale dell’Afghanistan dai Talebani e l’avvento di un governo almeno negli annunci meno integralista. Infatti, nonostante dichiarazioni e propositi dei governi interessati, gran parte dei contingenti militari delle Nazioni che fanno parte della forza Nato sono ancora – a distanza di anni – tra quelle montagne, a combattere in un Paese martoriato dalla guerra (e dalla pace) dalla fine degli anni settanta del secolo scorso. Protagonista di Passo falso (Piégé) è Denis (ottimo Pascal Elbé), un sergente che fa parte del contingente francese, che con la sua pattuglia è in missione per individuare dove è tenuta prigioniera una giornalista francese rapita. La pattuglia è vittima di un repentino attacco del nemico (in verità appare tra l’assurdo e l’incosciente inviare in perlustrazione una gip, anche se ben equipaggiata, da sola in un’area ostile) e dallo scontro si salvano Denis e un collega con il quale peraltro le divergenze sono profonde: quest’ultimo gli rinfaccia un presunto comportamento che ha causato la morte di un loro compagno. Il camion dei nemici resta abbandonato sulla strada e mentre si avvicina per ispezionarlo Denis poggia il piede su una mina antiuomo di fabbricazione sovietica (retaggio della presenza dell’esercito dell’Urss in quelle aree) che esplode se si sposta il peso del corpo: per salvare la pelle in attesa degli artificieri deve restare immobile specialmente con gambe e piedi. Il camion si rivela carico di sacchetti di droga tra i quali vi è una donna legata e imbavagliata. La presenza della droga scatena un duro contrasto tra Denis e il commilitone che vuole prenderne qualcuno per finanziare il proprio futuro dopo la fine del suo impegno militare. Buono il disegno delle psicologie e di una situazione in cui uno dei contendenti è impossibilitato a muoversi. La tensione del ‘movimento eguale morte’ crea la suspense e attanaglia lo spettatore che il regista riesce a far identificare con il protagonista, con la sua obbligata passività (bella la scena delle donne con il burka azzurro, in contrasto con il colore del deserto, che con gli asini vanno a recuperare la droga e con il cellulare informano sulla situazione), con i suoi tentativi di disinnescare l’ordigno e di comunicare con la base e con le sue speranze che i compagni arrivino prima dei nemici. Saillet incentra l’opera su Denis e la sua attesa della vita o della morte, ignorando salvo cenni fugaci e indiretti sia lo status psicologico dei soldati, sia i rapporti tra popolazione e guerriglia. Per lo spettatore che abbia voglia di andare oltre il film si può aprire un momento di riflessione personale: l’uomo nel deserto a rischio di saltare avendo un piede su una mina può essere l’immagine di ciascuno di noi nel deserto della vita.

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