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“Il racconto d’inverno” di William Shakespeare

Foto di Max Malatesta
Foto di Max Malatesta

Dal 26 agosto all’11 settembre 2016 è andato in scena al Globe Theatre di Villa Borghese in Roma ‘Il racconto d’inverno’ (‘The Winter’s tale’), opera tarda di William Shakespeare concepita nel 1611 poco prima della più famosa ‘La Tempesta’ (The Tempest’), entrambe opere della ricomposizione, della rigenerazione e del sollievo che attenueranno il suo spirito tormentato e incompiuto. Lo spunto gli era stato offerto da ‘Pandosto or the Triumph of Time’ (1587), romanzo avventuroso di uno scrittore e commediografo di successo di qualche anno prima, Robert Greene, detrattore spietato di quel giovane esordiente, indigesto astro nascente, da lui definito un presuntuoso corvo abbellito di piume altrui. ‘The Winter’s tale’ sarà la rivincita di una fervida maturità, il penultimo atto, e suggellerà il percorso umano e l’intera produzione artistica del bardo d’Avon. Nel quarto centenario della scomparsa dell’immenso drammaturgo inglese, il tempio elisabettiano d’Italia diretto da Gigi Proietti rende omaggio al suo Nume tutelare dedicandogli una delle opere più dense e meno rappresentate, proposta per l’occasione da Elena Sbardella che ne cura la regia in un adattamento originale ed efficace con licenza di stupire. È una fiabesca, malinconica riflessione sullo scorrere inesorabile del tempo, allegoria della tempestosa condizione umana in cui il dramma della gelosia, la follia del tiranno, i conflitti generazionali, gli strazi dell’amore, l’esaltazione del femminino sacro sono i temi universali che attraversano i racconti del mondo fin dalle origini. Scanditi dalla clessidra del tempo, supremo giustiziere che governa i destini di ognuno e, solo, ha il potere di ridare il giusto senso alla vita e alle apparenze ingannevoli, agli errori, alle debolezze e alle intemperanze dell’uomo. È il tempo sapiente che riconcilia, riverbera il dramma dell’esistenza e lo fa assurgere a mito. La funzione catartica che Shakespeare affida all’arte, eterna alleata del Tempo, si disvela nel prodigio della scena conclusiva che ricompone il magma dei contrasti insanabili. L’illusione della finzione salda gli opposti e sublima la favola incantata della vita immersa nelle rarefatte atmosfere di una giocosa liminalità. Ancor più forte che in ‘Amleto’, l’intreccio tra i due piani della realtà e della rappresentazione si connota di significati di tipo epistemologico, in cui il teatro si fa puro strumento esterno di conoscenza svolgendo comunque una analisi poietica della realtà, contribuendo a formarla(rappresentazione della realtà) e diegetico-narrativo, in cui i due ordini, quello degli eventi e quello della finzione, si manifestano dall’interno e vengono sottoposti comunque ad analisi interpretativa allo scopo di comprenderne il reale fondamento (realtà della rappresentazione). L’opera è in buona sostanza dramma di concetti e di interrogativi che affastellano l’esistenza ma soprattutto formidabile riflessione ermeneutica sotto forma di affabulazione sul potere dell’immaginazione che agita le menti. ‘Il racconto d’inverno’ è una tragedia che si volge in commedia, due parti distinte eppure correlate dalla medesima necessità espressiva che ne avvalora il lieto fine dopo avere prefigurato il dramma. Il titolo rende ragione del principio che sottende questa commedia romanzesca e rivela le urgenze del cuore che l’ultima stagione della vita ricompone con sapiente mestizia dopo aver percorso viaggi fantastici e itinerari dell’anima mai così esplorati. I figli scontano sempre le colpe dei padri ma il tempo che tutto trasforma con dovizia sconquassa gli schemi e riserva future prospettive e inaspettati riscatti. D’inverno le favole hanno un altro sapore, è l’ora propizia, come quella del vespro, e i silenzi dell’anima predispongono la buona novella. Composta dall’autore in cinque atti, i primi tre sono avvolti da furiose tensioni e foschi presagi, il quarto è pervaso da presenze bucoliche e pastorali, elfi e folletti. È il più prezioso, intriso di significati evocativi ed introduce l’ultimo, venato di delicato e soffuso lirismo. La dimensione temporale che precede l’eternità non rimane semplice necessità narrativa ma diviene artifizio sconvolgente, è il vero coup de théatre della rappresentazione, senza volto, immateriale, omologa l’immaginazione innalzandone le virtù che scellerati propositi e trame generate dalla colpa primigenia avevano imbrigliato, fino a favorire la metamorfosi dell’animo e del corpo del V atto in cui tutto si compie. Il primato della Natura alleata del tempo, seducente ossessione dell’autore, e l’Arte che ad essa soggiace, null’altro sono se non la quintessenza del naturalismo shakespeariano. Per esigenze sceniche nell’allestimento della Sbardella il racconto è ridotto a soli due atti e il pathos e quindi la vis comica e gli sconvolgimenti spaziotemporali vengono armoniosamente traghettati, come i favorevoli auspici che sottraggono la vicenda ad un epilogo tragico quanto scontato, preparati e sviluppati in un crescendo di benessere, di sempre più leggera teatralità e di emotiva partecipazione corale. Il merito di questa divertente trascrizione è di avere reso puntuali le intuizioni lungimiranti e assecondato le ‘sperimentazioni’ dell’ultimo Shakespeare e reso fruibile e allineata la narrazione, senza inopportuni scostamenti né sbavature, se si escludono digressioni variopinte poco anglosassoni, apprezzate dal pubblico giovanile, nei bizzarri dialoghi tra Dione e Cleomene e Mopsa e Dorca. Sceneggiatura essa stessa moderna, vivace e senza pause. La rappresentazione si avvale di eleganti geometrie. Curati e sgargianti i costumi e i tessuti prodotti da Cappellini & Licheri in cui prevalgono il rosso e il blu, i colori di Sicilia e Boemia. Anche le scene, scarne ma essenziali, sono di Cappellini & Licheri. I movimenti coreografici degli attori sono curati da Alberto Bellandi.  Suggestiva la fase della tempesta con giochi di luce (Umile Vainieri) e vele gonfiate dai venti che simulano il naufragio. Le musiche e le canzoni, eseguite live da Paolo Volpini (percussioni) e Aidan Zammit (tastiera e chitarra), sono di Nicola Piovani.  

Foto di Max Malatesta
Foto di Max Malatesta

Gli interpreti. Alessandro Averone è un eccellente Leonte, re di Sicilia. Solitario nella sua farneticante immaginazione, ben più di Otello perché orbo di Iago, è prigioniero delle sue elucubrazioni insane, prive di sponde esterne. Insidiato dal Dubbio, viene travolto dal Nulla, annientato dalle stesse immagini da lui stesso liberate. Dà un saggio di straordinaria, sofferta eloquenza nel monologo del fraintendimento, quindi nel serrato confronto con Camillo, impotente a farlo rinsavire e poi trasformato in un congiurato, come gli altri, come tutti intorno al suo ego. Drammatica la scena che infanga l’onesta Ermione sua sposa e il processo farsa, in cui le parole sono ingiurie infamanti e il senno è ormai perduto. Neanche Paolina avrà sorte diversa, riabilitata nel ruolo sacerdotale quando il fato si è compiuto. Alessandro Averone dà un’impronta superba ed altera, disperata e docile nella contrizione, di un antieroe solitario, un tiranno feroce e fragile, che solo la morte del figlio riuscirà a convertire, travolto dal morbo della gelosia e rigenerato dal pentimento consolatorio e dalla grazia salvifica che introduce il prodigio. Un’interpretazione che sarebbe sublime se non risentisse di cadenze ricercate e a tratti di eccessiva enfasi e gestualità affettate ai limiti del compiaciuto. Gianluigi Fogacci è Polissene, re di Boemia. Amico fraterno e sincero, sconvolto dall’insania di Leonte, padre severo, incredulo e intransigente prima in circostanze ‘pastorali’ e infine giusto nel riconoscere le altrui ragioni del cuore. Di nuovo esemplare nella riconciliazione. Ha la stoffa del grande attore, personalità radiante, disinvolto e adeguato in ogni situazione. Ricorda Giuseppe Pambieri. Carlotta Proietti è Ermione, sventurata moglie di Leonte. Nel tratteggiarne la figura, Shakespeare aveva in mente la sua sovrana, Elisabetta I, da poco scomparsa. Eroina superba, vittima di una gelosia malata, privata del rispetto come persona, donna e regina sottomessa al potere sovrano. Intensa e ieratica, straripante dignità nel dolore lacerante. Nella difesa di un’onestà incondizionata mai venuta meno, afferma con forza e dolcezza la superiorità morale del genere femminile. Carlotta supera a pieni voti la prova drammaturgica. È deliziosa, composta, pienamente espressiva, convincente e sicura, colma di fierezza in un ruolo difficile che può far tremare i polsi ad attrici esperte. Pietro Montandon è Camillo, barone e amico di Leonte e poi, dopo il rifiuto e la collera del sovrano, consigliere rifugiatosi alla corte di Polissene. Una performance di livello, una faccia a tutto tondo da simpatico’ fituso’, recitazione calda e vigorosa, all’occorrenza sfodera il suo gergo catanese che rinvigorisce il principio espresso. Ludovica Modugno è Paolina, inattaccabile contrafforte a sostegno della Verità, canna esposta alle tempeste, immune da turbamenti che la facciano desistere dal suo unico proposito, sconfiggere le devastanti menzogne, sciogliere l’incantesimo e riportare in vita il simulacro dell’onore e del rispetto alla sovrana, e con essi la Verità da sedici anni smarrita. La Modugno si conferma attrice intensa, superba, dotata di straordinario magnetismo. Stefano Santospago è Autolico, il popolano deus ex machina dello spettacolo, un vagabondo, un imbroglione di professione dai sentimenti teneri, una vita da adorabile guappo. È un outsider che irrompe nella vicenda con sguaiata allegria e sfrontatezza estrema, contribuisce a cambiare l’ordito e pilota gli esiti del ‘Racconto’. Stefano è una furia, un guascone della scena, mattatore incontrastato, balla e canta con semplicità risibile, suffragato da un physique du role imponente e da uno sguardo fulminante. Mimmo Mignemi e Marco Simeoli sono rispettivamente Dione e Cleomene, gli improbabili messaggeri incaricati di interpellare l’oracolo di Apollo e narratori dell’incontro finale fra regnanti, ma anche Mopsa e Dorca, le inquietanti pastorelle che deliziano la festa della tosatura. Mutano la tragedia in commedia, ammiccano verso il pubblico e ravvivano l’interesse. Mignemi e Simeoli sono due istrioni, macchiette incontenibili che fanno del vernacolo siciliano e napoletano un’arte raffinata. Non si può chiedere loro sobrietà né toni dimessi. Tra elfi, folletti e sagre campestri, sguazzano da par loro e soverchiano chiunque. Ma forse, e qui mi permetto di sottolineare l’unica riserva su questa messa in scena assolutamente brillante e di grande spessore, dissento su alcune libertà ad effetto nei dialoghi che considero non certo irriverenti ma inappropriate e ingombranti, oltreché anacronistiche e meno che mai funzionali. Andrea Tidona è un superbo Antigono, barone di Sicilia irreprensibile e sfortunato che mette in salvo la figlia di Ermione sulla spiaggia di Boemia prima di perdere tragicamente la vita. Andrea Tidona è attore elegante e di grande fascino, enorme caratterista, prestato finalmente al teatro. Neva Loni è Perdita, la figlia adolescente di Leonte e Ermione; Federico Tolardo è Florizel, figlio di Polissene. Sono loro che salvano i propri padri regali dalla loro miope involuzione. Entrambi attori promettenti, intraprendenti e molto sicuri, a dispetto della giovane età, belli e vincenti. Loredana Piedimonte è Emilia, la dama di compagnia della regina Ermione, la sua ombra solerte e fidata. Adeguata in un ruolo secondario per lei, insegnante ed attrice brava e instancabile, presenza fissa del Globe. Francesco De Rosa è il piccolo Mamillio, figlio dei redi Sicilia, troppo presto esposto alle nefandezze terrene, erede sacrificato alla follia del padre. È ancora un pargolo. Bravo e naturalmente tenero e commovente. Roberto Mantovani è il vecchio pastore che ritrova la piccola Perdita e la alleva come un padre. Pretenderà di cambiare vita a giusto titolo. Formato sui classici, ha una lunga militanza come attore e regista. Con lui sulla scena Paolo Giangrasso, buffonesco contadino preso di mira dal dirompente imbroglione Autolico. Infine Filippo Laganà, figlio d’arte e dinoccolato, aitante servitore di corte nonché bevitore incontinente.

In sintesi. Un eccellente lavoro di insieme, una task force di prestigio: porta a termine una missione complessa ed intricata che arriva al cuore della vicenda umana ed artistica del più grande di tutti, al culmine di una parabola che per quattro secoli è leggenda. È il ringraziamento vigoroso e autentico di un manipolo di valenti commedianti del Globe Theatre di Roma. Uno sforzo encomiabile che trasferisce a tutti noi come per incanto, o forse ‘per magia’, il Suo respiro luminoso, ormai libero e sereno, senza più affanno, pacato e consapevole, finalmente ricomposto dopo un esaltante peregrinare. Prima del commiato.

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Foto di Max Malatesta
Foto di Max Malatesta

SINOSSI

La narrazione è ambientata nella fantasiosa Sicilia del re Leonte, in un’epoca indefinita, dove anche la geografia è sgrammaticata, perché la Boemia che viene descritta dove regna Polissene è lambita dal mare, terra contadina e laboriosa, come primitiva e artificiosa è quella governata dal suo amico fraterno, compagno di giochi che il destino ha ricongiunto. Territori immaginari e reali, la Sicilia e la Boemia, lontane anche nelle regole apprese e praticate. Il re di Boemia, Polissene (Gianluigi Fogacci), dopo aver soggiornato per nove mesi alla corte dell’amico Leonte (Alessandro Averone), si appresta a salutare la corte per rientrare a palazzo. Leonte, dispiaciuto per la partenza, supplica l’amico di restare e invoca l’amata consorte Ermione (Carlotta Proietti), in avanzato stato di gravidanza, di dissuaderlo. Sulle prime irremovibile, Polissene cede alle lusinghe di Ermione e decide di prolungare il soggiorno ma Leonte interpreta le confidenze fra i due come eccessive e in lui si insinua il sospetto della sposa fedifraga, un tarlo che diviene ossessione cieca e disperata, irrefrenabile al punto di incaricare Camillo, barone di Sicilia(PietroMontandon), di avvelenare l’amico che è un servitore fedele ma non al punto di macchiarsi dell’infamante delitto. Si confida con Polissene che decide di fuggire portando con sé il cortigiano per risparmiarlo dalla tremenda punizione di Leonte. Costui, accecato dall’onta patita, allontana il piccolo Mamilio(Francesco De Rosa), figlio suo e di Ermione, da colei che ingiustamente ritiene infedele e che umilia prima di condurla in prigione senza alcuna pietà, assistita dalla fedele dama Emilia (Loredana Piedimonte). Ermione darà alla luce una bimba prematura che chiamerà Perdita. Per sincerarsi dei suoi sospetti, Leonte decide di interrogare l’Oracolo di Delfin e manda presso di lei due cortigiani ,Cleomene(Marco Simeoli) e Dione,(Mimmo Mignemi), per raccoglierne il responso. Paolina(Ludovica Modugno), moglie di Antigono,barone di Sicilia, preleva la neonata dalla prigione ed apostrofa Leonte che a sua volta la oltraggia con veemenza. Paolina è nobile cortigiana e si dichiara pronta a giurare sull’onestà di Ermione. Leonte delirante non trova il coraggio di far uccidere la piccola e la consegna ad Antigono(Andrea Tidona), chiedendogli di sbarazzarsene. Ermione viene processata, ma il responso dell’oracolo scagiona Polissene, ‘senza colpa’, e la regina, che viene dichiarata casta e vittima di un marito, geloso tiranno, che rimarrà senza erede ‘se ciò che è perduto non sarà ritrovato’. Leonte è incredulo, inveisce contro la pizia dell’oracolo quando viene raggiunto dalla notizia che il figlio Mamilio è stato ucciso dal troppo odio. Ermione non regge all’ultima sciagura e Paolina ne annuncerà la morte e si scaglierà nuovamente contro il suo re, a cui non rimane altro che scontare il rimorso e preparare la conversione dell’anima. Antigono intanto, giunto alle sponde della Boemia, fa appena in tempo ad abbandonare la piccola Perdita. Verrà sbranato da un orso e la nave che lo ha condotto in Boemia verrà affondata dal mare in tempesta. La piccola sarà raccolta da un contadino(Paolo Giangrasso) e da un pastore(Roberto Mantovani), che la accudiranno ignorandone la regale identità, pur intuendo, dai tesori che ha con sé, le sue nobili origini. Passano quindici anni e Perdita, divenuta una bellissima pastorella(Neva Leoni), si innamora di Florizel(Federico Tolardo), figlio di Polissene, il quale, per non svelare la sua identità e frequentare la fanciulla, finge di essere un loro simile assumendo il nome di Doricle. Polissene e Camillo, desiderosi di smascherare le strane frequentazioni di Florizel, sparito da palazzo, si travestono da contadini e, sotto mentite spoglie, si presentano alla festa della tosatura per spiare il principe. La festa è ricca di danze e di personaggi particolari come il vagabondo Autolico(Stefano Santospago), truffatore e ladro di professione, che inopinatamente cambierà il corso degli eventi. E ancora le due inquietanti pastorelle Mopsa(Mimmo Mignemi) e Dorca (Marco Simeoli). Polissene, smascherate le intenzioni del figlio di sposare Perdita, svela la propria identità e gli ordina di dimenticare la ragazza, intimando altresì a quest’ultima di non vedere più suo figlio. Camillo consiglia a Florizel di fuggire in Sicilia, presentarsi a Leonte insieme a Perdita con il proposito di cancellare l’accusa di adulterio contro Polissene ; in tal modo Camillo avrebbe potuto anche tornare nel paese natìo, inducendo Polissene a rincorrere il figlio. Giungono tutti in Sicilia alla corte di Leonte, compreso Autolico con i pastori che trovarono anni prima la piccola Perdita sulla spiaggia boema, desiderosi di dire la verità sulla fanciulla allevata. In cambio ottengono da Eutolico la promessa di condurre una vita migliore e priva di stenti. Nella casa di Paolina è custodita una statua dalle sembianze di Ermione: Leonte è dilaniato dal dolore, stupito dalla somiglianza con la moglie ripudiata. Paolina allora svela che quella è veramente Ermione trasformata magicamente in statua sedici anni pima per evitarle di morire dal dolore: rotto l’incantesimo, la regina è ricondotta in vita. Il ‘romance’ si conclude con il preannunciato matrimonio tra Florizel e Perdita e tra Camillo e Paolina vedova di Antigono.

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