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Milite ignoto – Quindicidiciotto

Andato in scena al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano

fotoAl Piccolo Teatro di Milano un altro grande esempio di cosa sia il Teatro, quello vero in cui pulsano vita, intelligenza, arte, idee, sentimenti… e non, come purtroppo troppe volte accade, un insieme di attori che paiono essere per caso sul palcoscenico a recitare testi che di certo non li aiutano per la loro superficialità, carenza di idee e mancanza di passioni profonde.

Milite Ignoto (come il precedente Ma’ per la regia di Latella) mostra che per fare Teatro in modo da coinvolgere il pubblico e lasciare un segno non occorrono tanti orpelli, dispendiose scenografie e cast magniloquenti, ma può essere sufficiente un unico attore purché bravo e supportato da un testo intelligente e capace di far riflettere.

Mario Perrotta (Lecce 1970) attore, regista e drammaturgo più volte vincitore del premio Ubu (il più importante del Teatro italiano) ha ricordato il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale (che per l’Italia è il 1915) con un’opera intensa, originale che parla alla mente e al cuore degli spettatori per la molteplicità dei temi trattati e lo fa con toni sommessi e non urlati, e forse per questo ancor più incisivi. Un esempio raro in un’epoca in cui dalla televisione al web si ha poco rispetto dell’intelligenza degli ascoltatori ritenendo l’urlo, l’insulto e l’invettiva gli strumenti più adatti a raccogliere consensi, ma che in realtà servono a nascondere la carenza di argomentazioni, la scarsa preparazione, la presunzione e la pochezza delle proposte.

Seduto su sacchi di terra o di sabbia (simili a quelli con cui si proteggevano le trincee) con la parte inferiore del corpo immobile, affidando ai movimenti di mani, braccia, viso e occhi il compito di sottolineare le parole, Perrotta ha scelto di parlare della guerra vista non dalle alte sfere (della politica o dell’esercito, che predicano molto, elaborano strategie (spesso perdenti) comodamente seduti nei loro confortevoli uffici (che esistono sempre anche quando sono nelle vicinanze del fronte) e che non subiscono nessuna privazione, ma dagli ultimi della gerarchia militare: i soldati che la guerra la patiscono quotidianamente sulla propria pelle messa a rischio per motivi spesso incomprensibili e lontani dalle loro aspirazioni e dai loro interessi.

Il conflitto che ha dilaniato l’Europa dal 1914 al 1918 rappresenta il passaggio da una guerra ‘umana’ nella sua disumanità a una in cui si perde ogni contatto tra i contendenti: i combattenti divengono sempre più ‘ignoti’ (nelle contrapposte trincee i soldati si parlavano, s’insultavano e a volte si vedevano) e il fronte sempre più teorico rischiando la vita spesso di più chi vive lontano dalla cosiddetta ‘prima linea’. La guerra diviene quasi un tragico gioco, anzi videogame, in cui armi sempre più sofisticate e telecomandate portano morte e distruzione ovunque e le vittime sono numeri statistici senza un volto, senza un nome, per l’appunto ‘ignote’.

Il lavoro di Perrotta ha, quindi, una valenza che partendo dalla Grande Guerra si proietta su tutti i conflitti successivi e futuri.

Per il nostro Paese – sottolinea l’autore/regista – la Guerra 1915-1918 (probabilmente quella con il maggior numero di soldati morti) ha rappresentato il primo momento di vera unità nazionale, in cui tutti (non solo le classi colte) hanno percepito di far parte della stessa comunità nazionale e si sono conosciuti facendo cadere pregiudizi dovuti alla non conoscenza. Lombardi e Siciliani, Toscani e Calabresi, Pugliesi e Piemontesi… si sono trovati fianco a fianco nel fango delle trincee o a scavare la montagna realizzando un’incredibile rete di camminamenti e piazzuole per i cannoni e hanno iniziato a ‘scoprirsi’ e rendersi reciprocamente conto che ‘gli altri’ erano simili e avevano problemi analoghi.

Perrotta per rappresentare le difficoltà di comprensione dovuta alla babele dei dialetti ha creato una lingua formata da parole dei singoli idiomi (straordinaria l’armonia fonetica ottenuta), strumento fondamentale per rendere da un lato palpabile la confusione linguistica delle trincee e dall’altro esprimere in modo incisivo e originale lo spaesamento e lo sgomento di uomini strappati da affetti, abitudini e paesaggi consolidati per divenire ‘numeri ignoti’ in ambienti sconosciuti. Essere umani obbligati a combattere e morire in un evento di cui in gran parte ignoravano i motivi (salvo gli slogan) e da cui avrebbero ricavato solo fatica e dolore, una guerra che – così come i soldati ‘nemici’ – combattevano per permettere ai ricchi e ai potenti (che stavano al riparo, lontani dal fronte) di accrescere potere e ricchezza.

La guerra 1914-1918 fu, come giustamente sostiene Perrotta in un bellissimo e commovente passaggio della performance, la prima in cui milioni di esseri umani sono divenuti ‘ignoti’ essendo stati privati della loro identità.

Quelle raccontate sono piccole storie di uomini che hanno vissuto e subito quegli eventi e li hanno descritti con parole semplici e piene di dolore nelle lettere che inviavano ai familiari, documenti raccolti ne La Grande Guerra, i diari raccontano realizzato da Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi per il Gruppo Editoriale L’Espresso e l’Archivio Diaristico Nazionale ed elaborati nell’opera Avanti sempre di Nicola Manaresi.

Poco più di un’ora d’intense emozioni che restituiscono una pagina di storia alla sua dimensione reale ripulendola dagli orpelli della retorica e riconsegnandola a centinaia di migliaia di ‘eroi per forza’ che di quegli eventi sono stati protagonisti e vittime.

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