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“Purgatorio” di Ariel Dorfman per la regia di Carmelo Rifici

Andato in scena all’Arena del Sole di Bologna

fotoLa prima percezione che si ha nel vedere lo spettacolo “Purgatorio” è che siamo nell’universo delle domande, dei grandi quesiti, delle riflessioni che partono dagli esseri umani, un’esplorazione interiore che, in una contorsione del pensiero, si allarga, a macchia d’olio, su temi più ampi, come il concetto di colpa, di rabbia, di accusa. Questa pièce scritta da Ariel Dorfman, scrittore molto impegnato nella difesa dei diritti umani, e messa in scena, in prima assoluta, all’Arena del Sole di Bologna per la regia di Carmelo Rifici, si sviluppa in un luogo astratto, un luogo che può essere di assoluzione o di perdizione totale: difficile stabilirlo. Un luogo dal quale si potrebbe uscire, ma nel quale si ritorna comunque: difficile affrancarsi da esso. Ed è proprio in quest’ambiente, isolato dalla dimensione spazio temporale, che un uomo e una donna si trovano costretti a interrogarsi e confrontarsi sulle loro vite, su ciò che li ha uniti profondamente e ciò che infine li ha portati a straziarsi a vicenda, in un tragico destino dal quale si può cercare di redimersi sviscerando i ricordi, attraverso le parole, per far venire a galla le verità delle loro vite e cercare di guarirsi l’un l’altro.

Per creare il suo Purgatorio Dorfman riprende il mito di Medea e, con esso, tutti gli ingredienti della tragedia classica, e li traspone in una pièce che parla di crudeltà, vendetta, violenza. La messa in scena di Carmelo Rifici riesce a dare risalto al gioco dialogico dei due protagonisti grazie anche alla scelta di due tra gli interpreti più intensi del panorama italiano: Laura Marinoni e Danilo Nigrelli. I due attori, con grande maestria, danno vita a uno scambio di battute travolgente, in un crescendo che rivela, pian piano, gli atroci delitti di cui si sono macchiati. Proprio come Medea e Giasone, l’una vittima di matricidio e di aver brutalmente ucciso Glauce, la donna per la quale viene rinnegata dal suo consorte, e Giasone, traditore e pusillanime, i due protagonisti si trovano incastrati in questo purgatorio, luogo di attesa e di cura, nel quale ci si interroga sulle prese di posizione nei confronti della realtà, e su come sia facile passare dal ruolo vittima a quello di accusatore e da carnefice a vittima. La domanda che più di ogni altra risuona è: “la vendetta, reazione a un atto subito, non è essa stessa violenza, non genera anch’essa altra violenza, altro dolore, altra sofferenza?” Domanda che Dorfman induce a porsi per interrogandosi non più sul singolo individuo, ma allargando lo sguardo alla società, alle guerre, ai conflitti mondiali: “chi è responsabile, oggi, – scrive Rifici nelle note di regia – dell’esodo di vittime che si muovono verso un Occidente che li teme?”

Ed è proprio dentro questo purgatorio, un luogo astratto, una sorta di limbo in cui il tempo non scorre come lo percepiamo noi, ma gira all’infinito e perseguita i protagonisti che, per primi, non si sono perdonati i propri peccati, che i due coniugi della pièce si sottopongono a un interrogatorio reciproco e, attraverso le parole, si curano l’un l’altro, terapeuti e pazienti in egual modo, guardiani di un dolore ancestrale, covato nel profondo delle loro anime, di cui ci si può liberare solo attraverso la redenzione reciproca, perché mentre redimi l’altro, redimi anche te stesso. La scenografia di Annelisa Zaccheria ricrea alla perfezione l’ambiente claustrofobico pensato da Dorfman, da un lato troviamo una stanza angusta, chiusa, che non lascia via di scampo né alla fuga del corpo né a quella del pensiero e delle emozioni. Dall’altra parte un talamo, simbolo di amore, ma anche di ossessione, di gelosia, sentimenti che hanno portato la donna alla terribile vendetta: uccidere i suoi figli.

E anche i figli sono lì, nello schermo che campeggia dietro la scena, ignari di ogni bassezza umana, serafici. Difficile non sentirsi, davanti a quegli occhi pieni d’innocenza che ci guardano, tutti un po’ colpevoli.

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