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Stasera sono in vena

Andato in scena al Teatro Area Nord di Piscinola, Napoli

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

di e con Oscar De Summa

produzione La Corte Ospitale – Teatro Herberia, in collaborazione con Armunia.

Finalista Premio Ubu 2015 migliore novità italiana.

Finalista Rete Critica 2015 miglior spettacolo.

Vincitore Premio CassinoOFF

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Oscar De Summa siede su una cassa audio e davanti ha un microfono, quattro fari partono dal fondali. La musica anni ‘80 che intervalla il racconto, pur rischiando di diventare orpello talvolta rispetto alla forza della parola, funge inevitabilmente da simbolico riferimento di una precisa generazione, sovrastruttura quindi, che insieme al semplicissimo assetto luminotecnico, costituisce l’unica impalcatura “tecnica” che incornicia la pura drammaturgia; drammaturgia – quella di “Stasera sono in vena” – che è oggettivamente un monologo, una partitura per un unico attore ma nella quale si affastellano tante voci che De Summa fa rivivere tramite la propria.

Stasera sono in vena” è il risultato fra racconto autobiografico, dramma e abisso interiori passati al setaccio di un percorso artistico e personale, e teatro che dà forma estetica e narrativa a questo pezzo di vita, che lo oggettiva e lo fa diventare storia di tutti. Il pregio del lavoro di De Summa risiede nei vari aspetti che ne racchiude la modalità del racconto. All’inizio, l’artista ci offre coordinate spaziali proprie della sua storia (Erchie, piccolo paese del brindisino) che s’incrociano con quelle temporali estrinseche ad essa (anno della nascita del sistema operativo Windows, di Super Mario, della vittoria a Sanremo dei Ricchi & Poveri, anno in cui il mondo conosce la parola Perestrojka di Gorbaciov); immediatamente la messa a fuoco si restringe e ci troviamo un giorno del 1985, dinanzi alla porta della sua casa, il campanello (che l’attore schiaccia col piede sinistro) suona: entra da quella stessa porta e nella sua esistenza, Sandra. Il racconto segue una sorta di architettura cinematografica, l’inquadratura più ampia dell’incipit si restringe verso particolari, contesti, situazioni e personaggi specifici. De Summa evoca i luoghi della sua adolescenza, corrosi dall’arida calura della brulla Puglia e dal turbine della dipendenza dalla droga, stagliandoci all’interno ogni singolo personaggio. Ognuno di questi s’incarna attraverso nomignoli e peculiarità che ne esaltano al contempo l’appartenenza a quella terra, ma anche il senso di disagio così pregno che giunge a noi in modo estremamente immediato. Il ritmo narrativo, una comicità che sa di umorismo dolceamaro, ce li mostrano come proiezioni di una pellicola che noi non vediamo, ascoltiamo ma ci riesce benissimo introiettarli nella nostra immaginazione sino a poter “sentire” quel senso d’inadeguatezza che li avvolge, in bilico fra fragilità e inettitudine. Nel 1985 c’è il sistema Windows, il videogioco SuperMario Bros è il simbolo di una nuova ludologia, ma loro sono lì, incrostati in quel piccolo mondo che qualcuno ci sta raccontando fornendoci un microscopio con cui vederli doloranti in quella perenne condizione d’inadeguatezza persino nei confronti dei propri genitori che non fanno altro che lavorare, mentre fra loro e la necessità morale ed economica del lavoro si concreta un abisso in cui essere inghiottiti; “mio padre lavorava e vedeva la televisione” dirà ad un certo punto De Summa, facendoci comprendere quanto le distanze con le generazioni precedenti segnino una rottura violenta come in passato forse era mai successo. Così scivolano nella nostra mente, leggeri, senza alcuna retorica, le notti in cerca dello spacciatore di fiducia, la musica ad alto volume, Sandra e Oscar addormentati su una spiaggia mentre ormai al mattino, è zeppa di famiglie e delle loro opulenti vettovaglie; così si dice di Franco, dell’altro amico Claudio, di un coro di anziane che pregano il Rosario mentre si contratta con Fernando Plasmon sulle dosi da comprare. Elementi esilaranti incorniciano questo microcosmo di giovani che, inchiodati a quella terra, scoprono di giorno in giorno la loro incapacità di rapportarsi ad un mondo che cambia rapidamente senza che essi possano veramente entrarne a far parte. In questa maniera De Summa si pone alla ricerca di un dialogo con gli spettatori, creando fiducia, indebolendo la “quarta parete”, fingendo persino una pausa dalla narrazione, raccontando del fallimento per il lavoro da manovale. Solo così, l’appuntita ed acre tragicità della dipendenza può farsi largamente spazio, cogliendo lo spettatore di sorpresa, sprovvisto di una qualche preparazione psicologica che lo equipaggino nel confronto con le ultime immagini che drammatiche si appressano, si affastellano attraverso la voce di De Summa sino ad una quiete funerea che ci porta su quelle enormi strade pugliese costeggiate da uliveti. Ad essa approdiamo frastornati dallo strazio che per qualche minuto ci ha tenuti irrigiditi; hanno qualche tempo prima abbandonato il corpo di Giuseppe, morto di overdose in una lancinante crisi di astinenza in cui – fra dolori indicibili ai muscoli – lo stesso protagonista urlava contro Sandra affinché si concedesse a chi poteva procurar loro una dose… il giovane Oscar è lì ora, dopo quello strazio si guarda intorno, chi lo ha accompagnato lì minacciando di ucciderlo, lo lascia invece respirare e solo; “Una fatica disumana a sradicarmi da questa terra” è l’avvio verso la conclusione di un capitolo di vita, il sigillo di una più vasta condizione umana, di quella “necessità di appartenerci” che è di tutti.. Questa terra è “terra del disonore” in cui droga non è solo la risposta al disagio giovanile, ma rappresenta anche un nuovo settore di investimento per la Sacra Corona Unita. Storie individuali si ritrovano impigliate entro le maglie di un tessuto più complesso, più drammatico che immobilizza quell’assetto geografico e sociale nella propria aridità. Né vale la bellezza di un aranceto, immagine rigogliosa nel mezzo della brulla calura, sotto il quale Sandra incita il compagno a fuggire via, ad iniziare daccapo lontano, “in bilico fra due mondi che mi chiamavano” dice, fra l’amore e la “madre solitudine” .

Per immagini e per voci, dunque, Oscar De Summa ci conduce per mano mediante processi narrativi fra i più semplici ed efficaci, costruendo uno spettacolo che incarni non tanto l’istanza intima di ascolto, quanto la possibilità di restituire la propria storia alla luce di una prospettiva che la sedimenti in uno spazio e tempo oggettivi e ne interpretino anche le ragioni profonde; storia di sé che si fa dramma da raccontare su una scena, dunque, scrittura calibrata e ragionata che trova perfetta aderenza in uno schema drammaturgico forte ed essenziale in cui rinvenire la possibilità di filtrare ora attraverso l’umorismo, ora attraverso la tragicità ad esso connaturato, un percorso esistenziale che si fa testo profondo e raffinato.

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