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Pinocchio

Andato in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano

Foto di Brunella Giolivo

Di Antonio Latella, cinquantenne regista campano conosciuto e stimato a livello internazionale e direttore della Biennale Teatro, il Piccolo aveva già ospitato lavori (in questa stagione Ma’, l’intenso dramma dedicato alla madre di Pasolini), ma non gli aveva mai affidato la regia di uno spettacolo di sua produzione.

Pinocchio rappresenta quindi il felice esordio di una collaborazione nonostante la difficoltà dell’impresa: il romanzo di Collodi, infatti, è solo apparentemente un testo per bambini, anche se era stato pubblicato a puntate settimanali (come usava in quel periodo e non solo in Italia) nel 1881 sul Giornale per i bambini (supplemento settimanale del quotidiano Il Fanfulla) con il titolo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino.

Quando Collodi (all’anagrafe Carlo Lorenzini, Firenze 1826-1890) ha iniziato, sembra di controvoglia, a scrivere quello che non solo gli avrebbe dato fama imperitura a livello mondiale, ma sarebbe divenuto uno dei romanzi più importanti dell’Ottocento italiano (per alcuni secondo solo a I promessi sposi) certamente non immaginava di divenire fonte d’ispirazione per decine e decine di artisti: illustratori, autori di fumetti, musicisti (si pensi agli album di Bennato e dei Pooh e alle canzoni di Celentano e Dorelli) e scrittori anche illustri come Tolstoj la cui La piccola chiave d’oro o Le avventure di Burattino (1936) nei capitoli iniziali è molto simile a Pinocchio per poi differenziarsene totalmente.

Innumerevoli le versioni cinematografiche (tra cui indimenticabili quella in cartoni animati prodotta nel 1940 da Walt Disney e quella diretta nel 1971 da Luigi Comencini e trasmessa in sei puntate sulla prima rete della TV) che hanno coinvolto (e a volte travolto) anche ottimi attori e registi. In teatro, invece, almeno in Italia il romanzo di Collodi è stato prevalentemente oggetto di musical: prima della regia di Latella si ricordano l’affascinante versione di Carmelo Bene messa in scena a più riprese tra il 1961 e il 1999 (pochi anni prima della morte avvenuta nel 2002) e La vera storia di Pinocchio raccontata da lui medesimo simpatico spettacolo (coprodotto nel 2011 dal Piccolo e dalla Compagnia del Sole) in cui un Pinocchio adulto (Flavio Albanese anche autore), di professione cantastorie, gira il mondo raccontando sulla musica di Fiorenzo Carpi le avventure di quando era un burattino.

Le molte trasposizioni (e i molti insuccessi) dell’opera di Collodi derivano sia dall’avere ognuno una propria idea di Pinocchio e delle sue avventure determinata anche dall’età in cui il libro è stato letto, sia dalla straordinaria complessità e dalle molte chiavi di lettura (esoterica, religiosa, pedagogica, sociale…) offerte dalle pagine collodiane.

Un terreno difficile e ricco di trappole da cui Latella è uscito brillantemente creando uno spettacolo importante, ricco di fantasia, a tratti onirico, mai deludente anche se oggettivamente non sempre perfetto e – specialmente nella seconda parte – bisognoso di qualche sforbiciata calibrata.

Grande intuizione è stata rinunciare visivamente al bambino/burattino affidando Pinocchio al trentenne Christian La Rosa (da premio la sua interpretazione), bambino in pantaloni corti palesemente cresciuto e sempre avvinghiato a un ceppo d’albero, simbolo della natura lignea del burattino ma anche ‘coperta di Linus’ necessaria per sopravvivere in un mondo ostile e pronto ad approfittare dell’ingenuità altrui: il palesemente non-bambino di Latella ricorda che tutti siamo possibili vittime di loschi figuri come il Gatto e la Volpe e di quanti sono pronti a sfruttare o distorcere le debolezze, i sogni o semplicemente le buone intenzioni degli altri.

La drammaturgia di Federico Bellini e Linda Dalisi oltre che dello stesso Latella rende palpabile, anche se tenuta sottotraccia, la vena di polemista arguto che ha caratterizzato la vita e le attività di giornalista e di scrittore di Carlo Lorenzini (figlio di un cuoco e di una domestica a servizio dei marchesi Ginori ha dovuto lottare sempre con un ambiente molto di casta) che emerge quando Pinocchio derubato trova l’arresto invece della giustizia, o quando viene impiccato dal Gatto e dalla Volpe (capitolo XV del romanzo e fine della sua prima stesura da parte dell’autore) o nel fil rouge della fame che attraversa tutta l’opera (dalla pentola sul fuoco disegnata nel focolare in casa Geppetto alla ricorrente citazione dei fagioli, desiderato e salvifico piatto dei poveri).

Latella libera in parte Pinocchio dalla fama di bugiardo: il burattino ricorre alla fantasia, al sogno per sfuggire alla bruttezza di un mondo menzognero in cui nulla corrisponde alle promesse, a cominciare del rapporto con Geppetto che come tanti genitori ha cercato di far nascere un burattino e non un essere capace di fare autonomamente, anche sbagliando, le proprie scelte. Pinocchio non vuol essere un burattino né del padre con il quale cerca peraltro disperatamente un rapporto non subordinato, né dei dogmi (a volte vuoti se non fasulli) della società perbenista e stratificata del Grillo Parlante. Non è difficile pensare che Lorenzini adombri in Geppetto il proprio rapporto con il padre quasi assente dopo la separazione dalla madre (donna di grande bellezza e forza morale cui Carlo fu legatissimo per tutta la vita), così come la ‘Fata dai capelli turchini’ sia sintesi della madre e di un amore non andato a compimento.

La scenografia di Giuseppe Stellato è tanto affascinante quanto (apparentemente) semplice: uno spazio aperto con quinte a vista che rappresenta – con la straordinaria suggestione visiva del tronco mobile sospeso parallelamente al palcoscenico e dei trucioli che volteggiano come neve – il mondo di Pinocchio e i suoi sogni. Stupendi e originali nella loro sinteticità i costumi di Graziella Pepe.

Della magnifica prova attoriale di Christian La Rosa si è già accennato, ma tutto il cast – in cui molti sono impegnati in più ruoli – è molto valido, a conferma della capacità di guida del regista. Da sottolineare il rispetto dello straordinario linguaggio di Collodi, rappresentazione scritta di quella ‘cultura parlata’ formata da parole ed espressioni usate dai diversi settori sociali (e ben diverso e più reale dell’italiano ‘sciacquato in Arno’ messo da Manzoni in bocca ai suoi popolani).

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