Andrea Camilleri seduto in prima fila si gode gli applausi al debutto romano dell’adattamento teatrale, realizzato insieme a Giuseppe Dipasquale, del suo romanzo, il secondo del “ciclo mitologico”, per il quale attinge alla memoria dell’infanzia e ai ricordi personali.
Ambientata nella solita fantasiosa Vigata, la vicenda intercala narrazione a rappresentazione, prendendo le mosse dalle chiacchiere nella barberia di don Amedeo, luogo d’incontro dei maschi del paese.
Nel casello di Siculiana sulla linea per Castelvetrano, Nino coltiva l’orto intorno a un ulivo saraceno, abbassa le sbarre al passaggio dei due treni giornalieri e suona le serenate insieme all’amico Totò, chitarra e mandolino, per arrotondare. La devota moglie Minica lo aspetta, con l’accorata speranza di rimanere incinta ma, per esaudire questo desiderio è necessario l’intervento della mammana Ciccina, un godibilissimo Moni Ovadia con barba e fazzolettone in testa, appesantito da un seno prosperoso.
Il primo atto ha il profilo di una favola antica che tratteggia l’idillio amoroso intrecciato a credenze arcaiche, con l’ausilio di un linguaggio siculo-popolare trasfigurato nella gergalità creata da Camilleri con innesti colti e personalissimi, non sempre comprensibili ai più, ma la cui sonorità è ormai familiare.
Nel secondo atto, gradualmente il registro drammaturgico vira verso il dramma epico. C’è la guerra, gli alleati bombardano la ferrovia, si inizia a costruire un bunker per arginare uno sbarco nemico. Nino, che irrideva il fascismo cantando le canzoni patriottiche a ritmo di polka e mazurka, è arrestato per oltraggio al regime e viene inviato un sostituto. Minica, dopo una violenta aggressione, perde il bambino ed è condannata alla sterilità. In preda alla follia, si rifugia in un mondo onirico dove, nel grembo della Madre Terra, effettua la sua metamorfosi germogliando con fronde e radici per dare nuovi frutti. La disperazione del marito esploderà in una cruenta vendetta dai canoni mafiosi, crudamente descritta, suggeritagli dal signorotto locale.
Moni Ovadia è un mattatore, entra in scena cambiando travestimento e timbro di voce: narratore, barbiere, mammana, giudice, ferroviere, gerarca. In questo attore mitteleuropeo, il dialetto camilleriano è piacevolmente sorprendente. Valeria Contadino è visceralmente intensa ed incisiva negli ardori e nel dolore di Minica e si trasfigura con dolcezza nella lucida follia della madre-albero. Nel ruolo dell’appassionato Ninuzzo, suona e canta le canzoni tradizionali e di regime come “Giovinezza” e quelle originali Mario Incudine autore delle musiche insieme ad Antonio Vasta. Con lui suona e duetta Giampaolo Romania (Totò). Sergio Seminara è il portavoce del capomafia don Simone e assiduo frequentatore della barberia, fulcro nevralgico di ogni accadimento.
Gli attori e i musicisti si muovono nel contesto narrativo del cunto, raccontando gli eventi ed interpretandoli nei panni dei diversi personaggi. Le musiche sono eseguite dal vivo da Antonio Vasta e Antonio Putzu, che svolgono anche i ruoli dei carabinieri.
La scenografia, sempre in penombra contro un fondale terroso e curata dallo stesso regista Dipasquale, evoca le ambientazioni più che descriverle, con la poltrona del barbiere in primo piano, un grande triciclo-carrello e una fila di panni stesi dietro i quali Ovadia opera il suo travestimento da mammana. Le luci soffuse di Gianni Grasso rendono vitale l’albero che allunga i suoi rami dalle braccia di Minica verso una palingenesi.
La maternità violata, la guerra, la mafia, lo stupro sono i mali della società, allora come oggi. La catarsi la realizza una donna indomita che continua a far scorrere linfa vitale nel suo cuore, pronta ancora a credere nella vita.