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Piergiorgio Odifreddi, Odissea canto XII

Andato in scena al Teatro Romano di Fiesole (FI)

Odissea – un racconto mediterraneo è giunto alla sua tappa finale. Per sei serate, nell’imponente anfiteatro, soltanto una luce che illumina un leggio e una voce che guida il pubblico alla scoperta del viaggio dei viaggi. Il curatore e regista del progetto, Sergio Maifredi, sceglie per il pubblico dell’Estate Fiesolana un ultimo nocchiere d’eccezione: Piergiorgio Odifreddi. Certo l’opera di Omero è ricca più di ogni altra di riferimenti e allusioni, di echi e di richiami a qualsiasi aspetto della vita, ma un approccio logico e matematico al testo si preannuncia quanto meno azzardato. Odifreddi trova un appiglio prelibato nel XII canto, uno dei più succulenti, quello in cui Odisseo, sull’isola dei Feaci, racconta al re Alcinoo le peripezie del suo nostos, la difficoltà del ritorno a Itaca. È qui che si incontrano Scilla e Cariddi, le sirene, i buoi del Sole. Proprio questi ultimi attirano l’attenzione di Odifreddi. La maga Circe così li presenta a Odisseo: “All’isola poi giungerai di Trinacria, dove pascon di Elio gli armenti e le greggi: sette mandrie di vacche e sette di pecore belle; cinquanta capi ogni armento e ogni gregge…”. L’eroe greco arriverà quindi nella verde terra dalle tre punte, la Sicilia, e lì vedrà le vacche sacre del dio Sole, che non si riproducono e non muoiono mai. Odisseo e i suoi non dovranno toccarle, o sarà lui soltanto a tornare in patria, e dopo nuove sventure. Mentre noi comuni lettori ci stiamo chiedendo – e ci chiediamo ogni volta con rinnovata ingenuità – se le giovenche saranno ancora vive alla fine del canto, Odifreddi si è fermato qualche verso più su a fare un rapido calcolo. Sette mandrie e sette greggi, ognuna con 50 animali, per un totale di 700. Un esercito un po’ misero per un dio. Quasi a intendere che l’ammonimento a non toccarle sia per evitare di restar senza, piuttosto che una profanazione del sacro. Ma a rendere giustizia al dio Sole ci pensa un altro greco, che in Trinacria c’è nato, Archimede. In una lettera indirizzata a Eratostene da Cirene, il matematico siracusano propone al collega un calcolo ben più difficile di quello del XII canto dell’Odissea. Tanto che la soluzione del problema dei buoi di Archimede viene risolto soltanto nell’Ottocento da un matematico tedesco. Odifreddi accompagna così lo spettatore nel mondo della matematica, facendolo furbescamente passare dalla via più semplice, quella del racconto. Incuriosito dalla storia e dai tanti gustosi aneddoti di cui viene arricchita, il pubblico pende dalle labbra del matematico con la speranza di sapere qual è il numero di giovenche che un dio che si rispetti fa pascolare in terra siciliana. Da logico, Odifreddi non può limitarsi a questo e si sofferma su tanti aspetti dell’Odissea e del mondo greco in genere che hanno a che fare coi numeri e con la verità, che è il concetto principe della logica. Odisseo offre un terreno fertile da questo punto di vista, da gran bugiardo qual è, e apre le porte ai paradossi che nascono dalla menzogna e una graditissima digressione sul significato della verità per i greci, che la chiamavano in due modi diversi a seconda che fosse palese, limpida di per sé o che fosse qualcosa da svelare, un mistero da risolvere. Alla fine della corsa, il pubblico non è sazio e chiede a Odifreddi di fare un’altra deviazione prima di attraccare, contagiato forse dalla malattia di Odisseo, che preferisce, in fondo, il viaggio alla meta.

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