
Il teatro di Fabrizio Arcuri si è contraddistinto negli anni per la proposta di autori poco o nulla conosciuti al pubblico italiano, tutti animati per altro dalla volontà esplicita di rinnovare concetti e dinamiche dello spettacolo, a partire da una messa in crisi dei meccanismi organici alla scena: il ruolo dell’attore e quello dello spettatore, dell’autore e del regista, i margini del personaggio e le sue relazioni con il pubblico.
Sorprende dunque non poco la scelta da parte di Arcuri di misurarsi con l’opera di Agota Kristof, ovvero una delle firme più popolari (e più vendute) del panorama letterario europeo. Diciamo innanzi tutto che “La Chiave dell’Ascensore” – coprodotta da Florian Metateatro e Accademia degli Artefatti – mantiene tutte le attese suscitate in termini di curiosità. Lo spettacolo – che sta per debuttare in anteprima al Festival “I Quartieri dell’Arte” di Viterbo – presenta infatti tutti i crismi del lavoro sfaccettato, complesso, finanche ambivalente sul piano della riflessione estetica. Così, anche laddove si perpetua una continuità lineare con le regie precedenti di Arcuri, il tutto passa attraverso una revisione complessiva del lavoro scenico.

Sul palcoscenico, la solitudine incarnata con intensità da Anna Paola Vellaccio subisce i viraggi di colorazioni mai ferme, che mutano lente come le stagioni della natura e rapide come il tempo artefatto del racconto. Eppure tutto sembra giocare a separare la recitazione dell’attrice dal contatto più diretto con il pubblico: filtri scenografici si sovrascrivono ad effetti distanziatori agiti in termini di prossemica, acustica, costume, distribuiti secondo un quadro non casuale di calibrate contraddizioni. Anche quando è spazialmente vicina, la protagonista non si lascia avvicinare dal nostro sguardo, isolandosi in una pura vocalità, oculatamente valorizzata e distorta allo stesso tempo da un intrico amplificato di echi e temi musicali.
La scena acquista subito una densità visuale che ricorda lo schermo cinematografico, in particolare il frame del kolossal. Così, da un lato si replica quella quasi negazione della teatralità in era post-drammatica (la medesima che Arcuri ama definire problematica della “legittimità”), quasi a sentenziare il superamento definitivo di un linguaggio teatrale ancora strenuamente pieno, non destrutturato. Eppure “La Chiave dell’Ascensore” riafferma apertamente lo statuto autorevole e legittimo del linguaggio teatrale, in virtù di un piano di regia assolutamente forte ed assertivo: ogni opacità o fissità della scena risponde ad un impianto fortemente formalizzato, su cui domina un lavoro di vera e propria drammaturgia della luce.
Regia, testo e recitazione si incontrano su di un terreno che prevede il coinvolgimento graduale ma inesorabilmente vibrante dello spettatore, per un lavoro che farà sicuramente parlare di sé. Il soggetto di Agota Kristof invita alla meditazione più cruda su temi basilari come il male e la relazione uomo-donna, ma forse ancor meglio permette di elaborare con profondità personale ed aperta l’universale del bene e la sua impegnativa ricerca. La sensorialità forte dello spettacolo sottolinea il protagonismo tematico del sentire, della connessione diretta con un’esistenza abbracciata convulsamente, mai respinta. Le limitazioni iniziali imposte alla recitazione libera dell’attrice tornano nella seconda parte come anticipazioni di una costrizione sensoriale e fisica del personaggio, seguendo un percorso complessivo di dualità non troppo velata, in cui fiaba ed anti-fiaba si generano reciprocamente, fino a smarrire ogni distinzione sostanziale nella dimensione del presente.
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CREDITS:
“LA CHIAVE DELL’ASCENSORE”
di Agota Kristof (Traduzione di Elisabetta Rasy)
con Anna Paola Vellaccio
Regia e ambientazione: Fabrizio Arcuri
Assistente alla regia: Francesca Zerilli
Assistente in scena: Edoardo De Piccoli
Cura: Giulia Basel
Foto di scena: Roberta Verzella
Grafica: Antonio Stella
Produzione: Florian Metateatro, Accademia degli Artefatti
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SCATTI DI SCENA:
Anna Paola Vellaccio in “La Chiave dell’Ascensore” di A. Kristof, Regia F. Arcuri
Foto di scena di Roberta Verzella