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Punti di vista e discrimini culturali

Al Carignano di Torino il capolavoro di Ayad Akhtar

Dopo avervi assistito, la scelta di mantenere il titolo in lingua originale, Disgraced, potrebbe essere motivata dal novero delle sue possibili traduzioni: diffamato, disonorato, infamato. Tanti sono i termini per descrivere la vicenda di Amir, avvocato musulmano perfettamente integrato nella società occidentale. A voler aggiungere ulteriore valore semantico, la traduzione italiana di Monica Capuani dalla drammaturgia di Ayad Akhtar, vincitore del Premio Pulitzer, la locandina dello spettacolo include il sottotitolo Dis-crimini, con quel significativo trattino che potrebbe risultare utile per avvertire un pubblico perbenista della condotta “criminale” del protagonista.

Almeno, criminale dal punto di vista di un pubblico bianco e benestante; la complessità del testo, che tratta un argomento delicato come quello della questione islamica post-11 settembre, deriva dalla necessità di rivolgersi a un pubblico che difficilmente può riuscire a comprendere il dramma personale di un immigrato, un altro. É emblematico che la rappresentazione venga accompagnata da una piccola brossura che raccoglie stralci di un intervista all’autore e le note preparatorie del regista Martin Kušej: «Questo», precisa quest’ultimo a caratteri cubitali, «è un dramma sull’IDENTITÀ».

Il passaggio di testimone, dal punto di vista dell’autore musulmano a quello del regista austriaco, è demarcato da scelte precise e caute: le battute spesso lente, distese, inframmentizzate da lunghe pause, sembrano esprimere la volontà registica di concedere agli spettatori il tempo per riflettere sulle implicazioni dei dialoghi.

Tutto lo spettacolo, d’altra parte, è la cornice di un incontro tra punti di vista culturali neanche troppo diversi tra loro: il diverbio tra il protagonista Amir (Paolo Pierobon), avvocato pakistano, e la moglie americana Emily (Anna Della Rosa), pittrice che sostiene il grande lascito artistico dell’Islam, è soltanto una delle espressioni del conflitto generato dalle incomprensioni reciproche; al duetto si somma, specularmente, la tensione tra la coppia interpretata da Fausto Russo Alesi e Astrid Meloni, rispettivamente un gallerista ebreo e un’avvocatessa che oltre alla professione condivide con il protagonista anche la provenienza culturale.

Se Amir rimane il perno attorno a cui ruota la drammaturgia, lo sviluppo previsto da Akhtar non risparmia paralleli tra il fondamentalismo islamico che questi rappresenta e il fondamentalismo occidentale del politically correct e del primato economico su tutti gli aspetti della vita. La critica è ovviamente rivolta al contesto che genera l’esclusione di un musulmano, pur convinto di essere totalmente integrato: l’Occidente che affonda le proprie indissolubili tradizioni nell’appartenenza a un’identità esclusiva, contrapposta a un’alterità necessaria. Sulla scena, la presenza anacronistica di una spada conficcata nel terreno ci ricorda di come la questione della “diversità” abbia attraversato i secoli senza essere risolta.

Ingenuamente convinta del contrario, Emily incoraggia il marito ad accontentare la richiesta del nipote Abe (Elia Tapognani) e sostenere la causa di un imam accusato di terrorismo. Cade il fragile paravento dell’inclusione occidentale, l’immigrato islamico-pakistano cade in disgrazia. Non può esistere lieto fine in una storia che si ripete da secoli e che non ha trovato (o forse non può intrinsecamente trovare) un epilogo qualsiasi.

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Disgraced

di Ayad Akhtar
traduzione di Monica Capuani
regia Martin Kušej
con Paolo Pierobon, Anna Della Rosa, Fausto Russo Alesi, Astrid Meloni, Elia Tapognani
scenografia Annette Murschetz
costumi Heide Kastler

musiche Michael Gumpinger
luci Fabrizio Bono, Daniele Colombatto
assistente alla drammaturgia Milena Massalongo
assistente alla regia Karla Traun

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