Massimo Ranieri, artista versatile e perfezionista, è il cantore di una sofisticata interazione fra melodia napoletana e ritmi jazz in questo recital il cui titolo è mutuato dai versi del romano Renato Rascel Te voglio bene tantu tantu bene, tu si’ ‘a vita mia, mm’hé miso ‘o ffuoco dint’ ‘e vvéne e, dint’ ‘o core, na malìa.
È un tributo in chiave jazz alla sua città con canzoni divenute dei classici del repertorio melodico, appartenenti al patrimonio musicale di varie generazioni, questa avventura musicale che Ranieri ha ideato e scritto insieme a Gualtiero Peirce e che ha inaugurato a luglio Umbria Jazz. L’artista napoletano affronta così un genere che non aveva ancora esplorato con l’ausilio di jazzisti di vaglia quali Enrico Rava a tromba e filicorno, Stefano Di Battista a sax alto e sax soprano, Rita Marcotulli al pianoforte, Riccardo Fioravanti al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria.
In una scenografia essenziale disegnata dalle luci di Maurizio Fabretti, il cantante inizia con Tutta n’ata storia scritta nel 1982 da Pino Daniele, cui dedica i versi di Aldo Palazzeschi “muoiono i poeti ma non muore la poesia perché la poesia è infinita come la vita”.
Prende corpo un fantasmagorico affresco di canzoni composte tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che hanno fatto sospirare Sergio Bruni col suo vibrato inconfondibile sulle note di Vieneme ‘nzuonno o Io ‘na chitarra e ‘a luna, o titillato le passioni erotiche delle sere estive incorrendo nella censura come Resta cu ‘mme di Modugno, o tratteggiato tipi umani bizzarri come ‘O Sarracino e Torero.
Amore, passione, gelosia sono i sentimenti veicolati da melodie intramontabili e portate al successo da interpreti che hanno scritto la storia della canzone partenopea, che tratteggiano una Napoli più night che jazz, come osserva lo stesso Ranieri, la città del dopoguerra con negli occhi le immagini dei soldati statunitensi e nelle orecchie i ritmi della musica popolare americana.
Nascono così i trascinanti brani Maruzzella al ritmo di beguine, Giacca rossa (‘e russetto), la scanzonata e allusiva Pansé e il boogie woogie di Tu vuo’ fa l’americano scritta in pochi minuti da Renato Carosone sul testo di Nisa, o il fortunatissimo slow di Anema e core interpretata perfino da molti cantanti lirici.
La lingua napoletana, seducente e incisiva, ha stimolato la penna e la vena musicale di artisti geograficamente distanti come Domenico Modugno con la struggente Resta cu ‘mme e Tu si ‘na cosa grande che vinse il festival di Napoli nel 1964.
Capri, la magica isola che lo scrittore Raffaele La Capria ha definito “abitata dagli dei”, meta in quegli anni di turismo internazionale con locali alla moda e boutique eleganti, ammalia con i suoi faraglioni che emergono dai versi di Luna caprese di Peppino Di Capri.
Un tuffo nella memoria collettiva di canzoni senza tempo, sulla scia dei ricordi d’infanzia ma tenendo a freno la nostalgia. Accennando a passi di danza come un folletto antigravitazionale, il cantante disegna traiettorie sul palcoscenico, mentre i musicisti con sax e tromba scendono in platea per spandere le note dei loro assolo tra il pubblico entusiasta.
Recital elegante, che si conclude con la dedica a Stefania Sandrelli presente in sala di Nun è peccato, ricordando che l’attrice volle cantarla con lui in uno spettacolo.
La malìa della sperimentazione di un repertorio classico napoletano rielaborato non può, tuttavia, rinunciare all’happening dei successi personali con Perdere l’amore e Rose rosse.