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Il mio nome è Milly. Una diva, tra guerre, prìncipi, pop e variété

Al Teatro della Cometa di Roma fino all’11 marzo 2018

Elegante e raffinato, Gennaro Cannavacciuolo tocca le corde della memoria narrando e cantando Milly dagli esordi nel varietà fino a Strehler, passando attraverso gli echi di un amore principesco, un lungo successo in Francia e in America e la partecipazione come vedette al programma televisivo di successo Studio Uno negli anni Sessanta.

Eclettico e versatile in travestimenti e trasformismi, l’attore in questo allestimento non fa molto sfoggio di tale abilità, privilegiando una dimensione più intimista e biografica scandita da racconti e aneddoti intercalati dalle canzoni. Costruisce un sofisticato spettacolo su un palcoscenico tutto nero e luccicante, evocando un’atmosfera raccolta di impatto emotivo e nostalgico sulle note di testi che hanno caratterizzato la prima metà del Novecento, con l’accompagnamento di Dario Pierini al pianoforte, Andrea Tardioli al clarinetto e sax e Francesco Marquez al violoncello.

Con portamento leggiadro e movenze sinuose recupera i temi licenziosi del varietà nella Torino sabauda degli anni Venti, con sottofondo di doppi sensi e allusioni, come “Era nata a Novi” o “Mutandine di chiffon”, suscitando risate ammiccanti.

Timidissima e tuttavia anticonformista e perfino sfrontata nella sua espressione artistica, la giovane Milly attira l’attenzione del principe Umberto, che la Real Casa e il regime indurranno ad allontanarsi, e del giovane Cesare Pavese che le scriveva lettere appassionate intercettate ed eliminate dalla madre.

Con brio e delicata raffinatezza, girando le gigantografie di Milly che scandiscono le fasi cronologiche, Cannavacciuolo tesse la trama del suo spettacolo fino alla maturità artistica della cantante piemontese, snodando il filo sottile che la conduce fino al repertorio di Brecht-Weill e ai testi dei cantautori degli anni Settanta quali Endrigo, Lauzi, Jannacci, De André, Aznavour.

Con scioltezza, l’artista napoletano passa dal repertorio malizioso mimato con movenze ironiche alla canzone d’autore: “Si fa ma non si dice”, “Donna e giornale”, “Stramilano”, “Milord”, “La valse à mille temps”, “La guerra di Piero” e “Parlami d’amore Mariù” che prelude all’incontro con Vittorio De Sica.

Sinuoso come un ballerino ed espressivo come un mimo, chansonnier maturo e fine dicitore legge la lettera di Pavese, poi un brano de l’Istruttoria di Peter Weiss sul processo di Francoforte ad un gruppo di SS di Auschwitz e la paradossale risposta fornita a un giornalista che chiedeva alla cantante perché avesse abbandonato gli Stati Uniti dopo dodici anni di fruttuosa permanenza.

Le canzoni di Brecht “Surabaya Johnny” e “Ballata della schiavitù sessuale” introducono ai sodalizi artistici con Strehler, che la dirigerà nell’Opera da tre soldi, e con Filippo Crivelli che ideò i recital in cui portava in scena il suo variegato repertorio, dalle canzoni ironiche e sottilmente licenziose degli inizi alla canzone d’autore.

La citazione “Vorrei morire cantando, perché soltanto sul palcoscenico sento di avere quei vent’anni che nella vita non ho avuto mai” viene sfumata sulla voce roca di Milly che canta un suo successo d’epoca, mentre Cannavacciuolo gira le gigantografie svanendo nell’oscurità della scenografia.

Leggiadra nostalgia veicolata da una ricercata nonchalance.

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