Fotofinish è uno spettacolo nato nel 2003 che non è raccontabile e, proprio per questo, scriverne è forse futile, inutile. Ma se è vero che ogni giorno compiamo una serie di azioni superflue allora mi si permetta di esprimere qualche concetto sulla performance di Antonio Rezza animata dalle immancabili installazioni plastiche di Flavia Mastrella, andata in scena al Teatro Duse di Bologna. Di cosa parla lo spettacolo? Cosa succede? Domande vacue e ampliamente superate nell’universo artistico e concettuale di Rezza-Mastrella, dove la narrazione viene demolita perché fare teatro, per il performer, non è narrare una storia ma un’esigenza dello spirito, una forma di ribellione. C’è un unico modo per farsi un’idea dello spettacolo: andare a vederlo.
Il bello di questa performance sta proprio nel capire tutto senza averci capito niente, tanto che a un certo punto ci si libera dall’ossessione della comprensione e si sta lì, con il semplice scopo di vivere e vedere. Uno spettacolo che, proprio come la vita, è subito dallo spettatore, in ogni senso. Tanto che Antonio Rezza, senza più barriere, investe tutta la platea e irrompe su di essa per disturbare, sconvolgere, irritare, urticare gli animi degli astanti. C’è chi partecipa al gioco e, non avendo molta scelta – gli spettatori più che essere coinvolti nello spettacolo vengono presi e portati sul palco – si sottopone alle “torture” dell’attore. Torture funzionali alla finzione che mette in scena Rezza: un’iperbole di ciò che tutti i giorni siamo costretti a subire, dei piccoli compromessi ai quali ci sottomettiamo ritenendoli necessari (?) per vivere in questa società. Finché si arriva alla morte stessa dello spettatore, che non solo è il simbolo della crisi del teatro ma anche il desiderio di rimarcare che siamo tutti spacciati, nessuno escluso. Nessuno può sentirsi più al sicuro, nemmeno nella semioscurità di una platea mentre osserva uno spettacolo.
L’attore si muove fino allo sfinimento dentro gli habitat, creati per lui da Flavia Mastrella che diventano tutt’uno con il corpo del performer, come delle protesi che gli permettono di sottolineare la prestazione fisica di notevole entità, tanto che lui stesso ammette che ogni sera rischia un infarto, alla quale Rezza si sottopone per portare all’estremo la sua visione di arte e di teatro. Molto suggestive sono le due sfere bianche che diventano due microcosmi, delle piccole realtà trasmutate in luoghi abitati, in particolare un ospedale e una casa acquistata grazia a un mutuo trentennale che rende invivibile la vita di chi vorrebbe godersela.
Attraverso un linguaggio feroce e tagliente Antonio Rezza e Flavia Mastrella mettono in scena il loro modo di intendere il teatro e di denunciare i paradossi della nostra società: mutui da pagare tutta la vita senza potersi godere nulla, ospedali che non funzionano, il lavoro che ti dovrebbe far vivere e che invece ti sotterra ogni giorno di più, la psicosi collettiva, la depressione non solo economica ma soprattutto mentale, il tabù dell’omosessualità ancora così evidente eppure inconcepibile. Tutto ciò diventa nelle mani di Rezza-Mastrella e della loro visione straniante dell’arte ancora più potente e dilagante: non c’è nessun appiglio reale al quale poter aggrapparsi per fare un sospiro di sollievo, per respirare un attimo e prendere una pausa dall’incessante ritmo che incalza sulla scena ma, proprio per questo, il messaggio irrompe ancora più vero e incontaminato.
Uno spettacolo che travalica gli steccati della comprensione e, proprio per questo, dico che è uno spettacolo da non perdere.