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Avevo un bel pallone rosso

In scena al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano fino al 4 novembre 2018

Avevo un bel pallone rosso
Foto di Luca Del Pia

Un tenero titolo, che riporta a una filastrocca trascritta per regalarla al padre da una perspicace e sensibile bimbetta trentina, Margherita, protagonista di una pièce interessantissima e coinvolgente: una lucida, delicata nonché profonda analisi di un incontro-scontro generazionale tra un padre e una figlia in anni in cui le eterne divergenze tra genitori e figli escono dal microcosmo familiare per assumere i toni di una rivolta sociale, germogliata sui banchi delle Università a partire dalla Facoltà di Sociologia di Trento per divampare con fiammate virulente in diversi contesti fino a spegnersi lasciando ceneri di illusioni frantumate, insicurezze irrisolte, paure esistenziali dilatate e qualche spiraglio di libertà sociale in più.

Nel 1965, Margherita Cagol (Trento 1945 – Melazzo/AL 1975) ha vent’anni e frequenta la facoltà di Sociologia presso l’Università di Trento, studia con entusiasmo, lo stesso che la spinge a frequentare giovani che come lei – ma in fondo come la maggior parte dei giovani nella storia dell’umanità – si accorgono che il mondo in cui vivono presenta una serie di incongruenze e difetti – in contrasto con i valori trasmessi – che con giovanile ardore sono certi di potere cancellare. Una giovane di una famiglia ‘perbene’ e di buone speranze, molto legata al padre con cui dialoga a tarda sera.

Una straordinaria analisi dell’evolversi dei rapporti interpersonali scritti con fine ed efficace discrezione dall’abile penna da Angela Demattè, drammaturga, attrice e cantante nata anche lei a Trento (1980) e quindi conoscitrice del contesto locale e soprattutto amante dei valori della tradizione fatti di onestà, senso del dovere, attaccamento alla religione cattolica e ai suoi valori… anche se ora vive tra Vigolo Vattaro/TN, Milano e Roma. L’autrice con tale testo-indagine su Mara (nome di battaglia di Margherita Cagol e moglie di Renato Curcio), tra i fondatori delle Brigate Rosse, ha vinto il Premio Riccione per il Teatro 2009 e il Premio Golden Graal.

La trasposizione teatrale in scena al Piccolo Teatro di Milano propone un lavoro di sette anni fa in una nuova edizione (adattata ai mutamenti intercorsi nella società in questi anni) prodotta da LuganoInScena per la regia di Carmelo Rifici e ha inaugurato lo scorso settembre la ventisettesima edizione del Festival Internazionale del Teatro di Lugano.

Per approfondire un periodo come quello del ’68 – di cui ricorre il cinquantenario – assolutamente sconosciuto ai giovani di oggi, niente di meglio di una conterranea di Margherita, curiosa di capire da chi le sono arrivati i principi e i valori che la connotano. Un risultato straordinario visto che al testo si aggiungono una sapiente ed equilibrata regia, una resa attoriale che supera la perfezione da parte dell’eccellente Andrea Castelli, anche lui trentino, e una valida interpretazione di Francesca Porrini nel difficile ruolo di Margherita-Mara in bilico tra ingenuità, forza, generosità, attrazione per un assoluto… e che ha imparato la lingua trentina che non è la sua.

Fondamentale nello spettacolo il ruolo del dialetto trentino, peraltro comprensibilissimo, per esprimere la parte viscerale, intima e familiare di Margherita nel suo rapporto con il padre, mentre l’italiano rappresenta l’espressione di un’evoluzione intellettuale e di un’affermazione pubblica: non bisogna dimenticare che all’epoca della formazione scolastica di Margherita il dialetto era considerato negativamente mentre negli ultimi decenni del ‘900 acquista una sua dignità come espressione di una ‘regionalità’ che andava man mano scemando.

Il graduale affermarsi dell’italiano diviene simbolo di un divaricarsi sempre più forte nella comunicazione tra padre e figlia segnata anche da un moltiplicarsi di silenzi, pur non venendo meno l’amore e la stima reciproci resi ben palpabili dalla recitazione: uno spettacolo di forte impatto per la forza dei sentimenti che lo caratterizzano, capace di fare riflettere non solo su un periodo tormentato della nostra storia, ma soprattutto sull’eterna fatica di crescere e di vivere per l’umanità tutta.

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