Dalla Pietroburgo degli zar alla Roma del Papa Re. Da “Il naso “di Gogol a “Er naso de Gogolle” di Pierpaolo Palladino. Dal racconto alla traslazione drammaturgica. Dalla lingua russa a quella romanesca (che Gogol conosceva avendo soggiornato a lungo nella capitale).
Lo sguardo ironico e burlesco di Nicolaj Gogol che stigmatizzava i soprusi e il servilismo della piccola borghesia russa trova una cassa di risonanza nella Roma papalina del primo Ottocento scelta da Palladino per ambientare la vicenda dell’abate Cesare Casimiro Corvallone giunto dai castelli con l’intento di diventare Notaro di Curia mentre non disdegna di procacciarsi i favori delle popolane.
Surreale e farsesco il testo, che la parlata romanesca sfronda da connotazioni auliche. “Questo spettacolo si inserisce in una personale ricerca nel solco di una drammaturgia contemporanea dialettale (come altri autori di ogni regione italiana che dagli anni ottanta sono stati protagonisti del rinnovamento drammaturgico nazionale) che segue i miei precedenti testi” afferma l’autore.
La mattina del 30 marzo 1836 l’abate Corvallone si trova privo del naso. Superato lo sconcerto, mentre corre al commissariato vede scendere da una carrozza davanti alla basilica di Sant’Andrea della Valle un monsignore con indosso gli abiti del cardinale Beomonte che non lo riconosce perché … è il suo naso! Disperato, ricorre a un’inserzione sul giornale ecclesiastico offrendo una ricompensa a chi gli riporta la sua preziosa appendice la cui assenza lo priva di identità e dignità “poiché un omo senza naso che omo è? Pure l’animali che so’ animali c’hanno er naso! A un omo timorato nun gliè capitano ‘ste cose, er naso è come un titolo d’onore, chi ha bon naso è omo de rispetto e piace a le signore”.
Intanto, il barbiere Oreste mangiando un panino ci trova dentro un naso che riconosce essere quello dell’abate a cui aveva fatto la barba il giorno prima. Temendo di averglielo reciso mentre era brillo, decide di sbarazzarsene buttandolo nel Tevere da Ponte Sisto.
Il povero abate, convinto che la sua disgrazia sia opera magica di Donna Ersilia che vorrebbe accasarlo con la figlia, sproloquia di denunciarla al Sant’Uffizio. Tutto sembra risolversi quando la guardia gli consegna il suo naso, arrestato mentre tentava di espatriare con falsi documenti di ambasciatore di Russia, ma non si attacca e le dicerie si diffondono in città. Il primo aprile, al risveglio, il naso sta al suo posto, il barbiere lo sbarba regolarmente e l’abate può esibire il suo profilo come simbolo della propria autorevolezza.
La scrittura di Pierpaolo Palladino nel romanesco colto ottocentesco è icasticamente incisiva di un clima di arrivismo ed esibizionismo che permeava gli ambienti curiali, contraltare della mediocrità della macchina statale russa messa alla berlina da Gogol.
L’autore e regista, sulla traccia del racconto dello scrittore russo, delinea l’affresco di una società che abbiamo imparato a conoscere attraverso i film di Luigi Magni, e ne tratteggia gli scorci: le chiese, il Colosseo, il Tevere, i ponti, il porto di Ripetta, i palazzi patrizi.
Francesco Acquaroli, sfumando toni e atteggiamenti per modulare i registri vocali del narratore e dei personaggi, snocciola con naturalezza il racconto reso in forma di melologo con le musiche di Pino Cangialosi eseguite dai figli Livia (voce e fiati) e Flavio Cangialosi (tastiere, chitarra e percussioni). “La scelta di affidare l’interpretazione musicale a due polistrumentisti in scena, permette una narrazione sonora ricca di elementi colti e popolari. Il corno, il contrabbasso, la chitarra, già in uso all’epoca di Gogol, convivono in questo allestimento con sonorità pop-rock (synth, chitarra elettrica, voce, percussioni).
Scene, costumi e disegno luci di Alessia Sambrini.
Il testo è pubblicato dalla Mongolfiera Editrice.