‘Due gatte randagie’ è una commedia agrodolce in due atti di Aldo Nicolaj andata in scena al Teatro Palco delle Valli di Roma nel week end di inizio febbraio con Daniela Rosci, Emy Naselli e la partecipazione gestuale e, nelle intenzioni dell’autore, naturistica di Francesco Bellafiore. La regia è di Valerio Giombetti. Si tratta di uno dei tanti contributi della fertile produzione del commediografo piemontese, profondo conoscitore dell’universo recondito femminile che tratteggia con affetto e venerazione. Un affresco vivace e spregiudicato dalla parte delle donne, che trae spunto dall’osservazione puntuale delle tante inquietudini e turbolenze che caratterizzano la nostra convulsa epoca. Si potrebbe definire, con un ossimoro calzante, dramma comico. È la storia di due donne non più giovani, con una sequenza esemplare di fallimenti alle spalle e la intrepida voglia di spingersi ancora verso l’ignoto, per non morire, per dare una residua opportunità alla propria esistenza e rianimare la flebile speranza. Vera (Emy Naselli) e Rita (Daniela Rosci) sono due amiche che si conoscono poco e si frequentano ancor meno. Sole, insoddisfatte, caratterialmente diverse, accomunate dal medesimo proposito di evasione e riscatto. Rita è possessiva, nevrotica, sdegnosa, diffidente, aristocratica; pudica come vestale, almeno formalmente. Vera al contrario ha una natura ironica, è disinibita, disponibile, pragmatica; vera, appunto. Una vacanza disorganizzata last minute in un’isoletta selvaggia del Mediterraneo sarà l’occasione per il nuovo inizio. Ma nella neverland dei sogni si parte male e la camera in condivisione Rita proprio non se l’aspettava. Le sorprese in questi casi hanno l’effetto domino e sviluppi mai scontati. In quella camera di albergo c’è una presenza inaspettata, un intruso dapprima percepito su tracce incontrovertibili e poi incarnatosi, con buona pace di Rita, senza troppe convenzioni borghesi. È un giovane aitante, bello come il sole, noncurante della novità, disinvolto e senza veli, soprattutto indifferente alle esplicite avances delle avvenenti tardone. Far fronte comune per arginare l’energumeno si rivela ben presto disegno velleitario e mistificante. La contemplazione estatica di quel corpo da dio greco dormiente vanifica la repulsione e solletica una libido da troppo tempo repressa. Ma il risveglio è impietoso come la più crudele delle verità. L’inafferrabile ospite misterioso non le degna della minima attenzione. Vera e Rita ‘rimbalzano’ trasparenti ai suoi occhi. Il disprezzo non ha voce ma fa più male di qualsiasi violenza. A costo di non rifare le valigie, bisogna, obtorto collo, intravedere aspetti meno inquietanti e più consoni all’ambiente che le accoglie; il mare, le calette il belvedere, il profumo di gelsomini fanno da blando antidoto al mortificante contorno. E poi sono pur sempre due donne ancora piacenti, una soluzione deve pur esserci. La vicendevole lusinga aguzza l’ingegno e aizza le contromosse. Il confronto tra le due è serrato, incalzante. Riposto ogni imbarazzo, i dialoghi mettono a nudo, per traslato, i drammi personali e le pulsioni di ognuna. Non resta che praticare la seduzione in ogni forma. I ricordi di viaggio fanno ben sperare e Rita si rivela ben presto la più smaliziata. Il suo taccuino è di tutto rispetto e annovera un invidiabile trofeo recente, un ragazzo norvegese sotto le stelle di Istambul; circostanza che a Vera, sposata con un uomo maturo, verrà interdetta, se si esclude un capriccio ormai datato, …a cui però ne seguiranno anche altri! Tra un’attesa e l’altra che si liberi bagno o doccia e il via vai sfuggente del ragazzo misterioso, le confidenze si susseguono a grappoli e il contraddittorio si arricchisce di nuovi amori e passatempi d’occasione. Che senso ha ormai controllare le emozioni? La natura accomodante e romantica di Vera fa da contrappunto allo stato d’angoscia che pervade Rita, la cui solitudine è più cerebrale, raffinata, intrisa di malinconia depressiva. La sensazione di vuoto, di instabilità permanente, non ha surrogati. Vera invece la riempie di cibo adempiendo con cura un rituale che esalti, oltre al gusto, tutti gli altri sensi. Ognuno convive a modo suo con la propria solitudine. Uno dei mali universali della società postmoderna è l’incomunicabilità, la incapacità ad ascoltare. E allora fra le due ‘amiche’ ha il sopravvento un atteggiamento conflittuale, sordo alle ragioni altrui; è un confronto ammiccante, di strisciante ironia, di sfida, tra vecchi rancori e l’avvilente presente. Al punto che anche quel corpo muscoloso può diventare oggetto di provocazione e contesa. Si scopre che Rita, dopo un marito puttaniere che l’ha piantata, ha optato per un intellettuale innocuo, un certo Attilio, soggiogato da Proust. Dopo avere dato e perso tutto, ci si accontenta alla fine del minimo sindacale, anche solo di un sentimento fugace, di una tenerezza sottratta all’abbrutimento e alla vita che non torna più. Ma le umiliazioni sono come l’artrosi, quando le inauguri non ti lasciano mai e sono sempre più invalidanti, soprattutto se messe in atto da chi non ti aspetti. A Vera, se possibile, è andata anche peggio: consegnata in sposa giovanissima ad un cinquantenne, l’illusione dura ventitré giorni. Lui si fa frate dopo un matrimonio combinato. Vera è un’anima candida, credulona, generosa, positiva nonostante tutto. Ma, tra euforia e disincanto, l’isola non aspetta che loro …al diavolo la tristezza! Mettersi in ghingheri, far festa passando la serata in un ristorantino sul mare e sbronzarsi fino allo stordimento. Magari riesce l’ impresa di accalappiare qualche animale da preda, meglio se provvisto anche del dono della parola… La magia non accade, ma rientrano in camera eccitate, in vena di riaprire ricordi purulenti, senza rete perché c’è più gusto. Le storie di Rita sono molto vivaci e i maniaci sessuali si affrontano col punteruolo salvavita. Lo stupro subito a quindici anni e la vergogna in famiglia fanno luce su trascorsi dormienti nello scrigno della memoria. Vera è meno pretenziosa, ma le botte cadenzate di Luigino se le ricorda ancora. Gli uomini sono tutti uguali, si può farne a meno e anche quello straniero non si sottrae alla regola. Mentre è fuori in paese, non resta che trasferire il letto in terrazza e disfarsi di quell’enigmatica presenza. È mancato il rispetto. Rita è più determinata. In Vera c’è un fremito di tenerezza per quello sconosciuto che le due non hanno compreso; in fondo non ha fatto alcun male. La sera sull’isola l’ incanto di stelle prefigura un indomani mattina assolato, da trascorrere insieme sulla spiaggia delle sirene. Ma non c’è più tempo. Il giovane rientra all’improvviso e il copione sembra ripetersi puntuale. Tenta di trascinare all’interno il proprio giaciglio, Rita però reagisce con veemenza, è sul punto di impedirlo, ma lui si divincola dando uno spintone a Vera. L’affronto non viene consentito oltre e scatena la furia. Il punteruolo salvavita è anche ammazzafantasmi. Il finale altamente onirico che chiude la messinscena è intriso di allegoria, genera smarrimento e incredulità per poi assecondare il risveglio delle menti. La realtà può essere più amara di un brutto sogno. Le paure sono dentro di noi, è la nostra fragilità ad alimentarne lo spettro. E domani è un altro giorno perché siamo proprio noi gli artefici e i protagonisti delle nostre sconfitte, ma anche di ogni rinascita, se davvero lo vogliamo. In Rita e Vera, come in genere nei personaggi di Nicolaj, non c’è nulla dell’eroismo delle figure femminili della mitologia classica e il pomo della discordia è la proiezione di desideri a lungo repressi tra essere e voler essere. La vendetta delle due non ha il significato catartico dei tanti guai di Clitennestra, anch’essa vittima e carnefice. Non ha nulla di nobile, nulla di eletto. Appartiene ad una follia molto più terrena, intima e personale, greve e inconsolabile. È annientamento da autodistruzione quello che condanna le due sventurate al dramma della solitudine perpetua. L’umanità è popolata di potenziali mostri e la naturalità non può essere riconducibile alle loro paranoie e incongruenze. Nutrito di neorealismo, dopo aver strizzato l’occhio alle forme più eccentriche del teatro dell’assurdo e del noir, Nicolaj anche in questo lavoro esaspera episodi di ordinaria e diffusa nevrosi di genere che affliggono donne provate dalla vita, li tratta con ironia sferzante ed indulgente, per condurli con l’artifizio del paradosso alle conseguenze più estreme e financo macabre. Il comico è l’intuizione dell’assurdo, per dirla con Ionesco, ed è più disperato del tragico. La comicità e il divertimento sono spesso involontari e scaturiscono dal particolare, da episodi isolati e atteggiamenti inconsulti, ma il testo è crudo, è la narrazione di due vite imbrigliate da una solitudine urlante, impotente, che trascina le protagoniste sull’orlo del precipizio in un crescendo grottesco e senza scampo. L’adattamento di Valerio Giombetti, pur diligente, resta anonimo, è poco armonico, non possiede quella inebriante leggerezza che sdrammatizzi la vicenda e, al contrario, non le infonde pathos. Non rende ragione dell’originale, manca di coraggio, di brivido, di quell’ardimento che valorizzi i contrasti e gli opposti e, predisponendo l’attesa, consegni il dramma al suo destino ineffabile quanto sorprendente.
I protagonisti.
Daniela Rosci è una Rita convincente e intensa. Tiene la scena da par suo. Dotata di personalità drammatica e autoironia, infonde al personaggio il giusto piglio e sostanza appropriata, modula toni e sfumature con maestria. La recitazione è efficace, sicura. Solo a tratti disorientata ma è incolpevole, rimedia da artista di spessore quale è ed il pubblico non se ne avvede. Emy Naselli è Vera, tenera e un po’ evanescente, a dispetto del nome; stucchevole, caricaturale al punto da banalizzare il ruolo, subisce alcuni inciampi che penalizzano un’interpretazione inadeguata e non coerente al testo. Si intuiscono indubbie qualità e credo sia in grado di superare alcuni limiti. Se opportunamente impostata e indirizzata, saprà recuperare naturalezza e convinzione. In sintesi: Daniela Rosci e Emy Naselli rappresentano una coppia inedita, improvvisata, da rivedere ancora e la cui intesa, per funzionare a dovere, necessita di affiatamento che vada oltre l’impegno estemporaneo di un fine settimana. Francesco Bellafiore è un giovanotto un po’ impacciato trasformato in toy boy per l’occasione. Non esibisce un invidiabile physique du role, né sprizza personalità, ma non gli veniva richiesta.
La scenografia è rabberciata: spazi ridotti non giustificano confusione sovrana. Si doveva riprodurre, o quanto meno evocare, un terrazzo esterno che nella stesura è funzionale e non fa da mero corollario. Il teatro è pur sempre fantasia, immaginazione. Insomma: il luogo più indicato.