Nel cartellone della attuale programmazione al Nuovo Teatro San Paolo di Roma è presente uno spettacolo decisamente inconsueto, policromo, audace, che rompe i canoni tradizionali del fare drammaturgia e coinvolge lo spettatore che non ha più scampo, affrancato da pregiudizi, in un’avventura senza fiato e senza riguardi.
‘Fiato corto’ è un inestricabile puzzle, un bizzarro, caleidoscopico gioco di luoghi comuni e consuetudini strampalate. È metafora da massima allerta della nevrosi che caratterizza questa nostra robotica, feticistica società postmoderna, percorsa da fremiti di incontrollata convulsione. Vi sono rappresentati i pensieri in libera uscita di una compagnia di attori che provano ad emanciparsi, a disinnescare meccanismi triti di copioni senz’anima, a reinventare la storia e riprendersi la scena. Ripudiato lo squallore della trama, escono dal personaggio e lanciano la sfida, si confrontano con lo spettatore, tra uno sberleffo e una lusinga, al punto da immedesimarsi in lui, in un gioco collettivo di reciproche influenze, avvincente, a volte furioso, di grande effetto teatrale.
L’autore, Andrea Monti, affronta il tema dell’affanno quotidiano con più sarcasmo che ironia, con più rigore che indulgenza, mettendo a nudo uno scenario desolante, il replicarsi di abitudini consolidate, l’intorpidimento di automatismi che preservano verità circolari a cui appare illogico dare un senso logico. E lo fa all’interno delle mura domestiche, tra backstage e quarta parete, fomentato dal fuoco amico di un vivaio che starnazza di insoddisfazione e rabbia, che esce dal guscio emettendo polveroni. Trasfigurando la finzione, dà fiato alla sua compagnia e la rianima con un fuori programma pirotecnico.
‘Fiato corto’ è provocazione, non senso, inconsistenza. L’apparente evanescenza dei dialoghi si esalta in un coacervo ardito di allitterazioni, assonanze, paronimi, puro artificio semantico che diviene musicalità, ritmo. Un concerto di parole che si inseguono, si disperdono e sovvertono il dettato. Il logos, svuotato di contenuto diviene pretesto, allusione, sonorità eterea e primordiale, magmatica, silenzio, paradigma di un malessere fuori controllo.
È il segnale. Uscire dalla gabbia mentale degli stereotipi, delle associazioni di idee, dei sillogismi, del significato ad ogni costo. Imbrigliati da complessi, fisime, asserviti ai giudizi altrui che deformano la realtà, rinunciamo al nostro benessere interiore e mettiamo a repentaglio una autostima che versa in pessima salute. Veniamo sopraffatti dalla pesantezza che mortifica quella ‘insostenibile leggerezza dell’essere’ a cui pure tendiamo. In buona sostanza fingiamo di vivere mentre finiamo di morire.
La musica struggente dei Pink Floyd fa da controcanto al testo. Sulle note invocanti e spettrali di ‘Shine on you, crazy diamond’ si apre la querelle che si compone di nove frammenti tra monologhi e dialoghi a più voci.
Il primo, ‘Tra fifa e coraggio’ è un dialogo fittizio ed empatico, pervaso di lucida follia, che un teatrante frastornato (Riccardo Benforti), in vena di spigolature, consapevole di sé, del mancato successo, censore di sedicenti oratori narcisi a corto di idee, imbastisce con il suo invisibile pubblico.
Quello ‘tra fifa e coraggio’ è un po’ come un ponte tibetano, una rotta inesplorata e audace, temerario passaggio a nordovest che il protagonista, disilluso ma con tanta voglia di ‘alzare la testa’, alter ego dell’autore, rivendica in un monologo surreale eppure vibrante e sincero ‘per farsi solo ascoltare fra tante note stonate e un accordo indovinato’. Il suo affabulare deciso, persuadente, contrastato, fatto di assunti ed astrazioni all’apparenza criptici e slegati, è un po’ il filo conduttore di uno spettacolo che rapisce e disorienta, dalla prosa ardita che corrobora una comunicazione diretta, a volte impervia, sorretta da una fitte rete di aforismi e da un esercizio di metrica raffinata, tra rime di ogni tipo, ad alta tensione.
È un gioco sottile dove il ritmo e l’energia della parola sussurrata, bisbigliata, invocata, interpretata, urlata, violentata, rivestono un’importanza subliminale, soggiogante e catartica che trascende il senso lessicale, la concezione referenziale. È, insomma, allegoria che sottende l’apologo.
‘Ma statte zitto te’, con Diego Parente e Francesco Casella, è un siparietto demenziale fra due comici supponenti che si contendono la scena davanti al loro pubblico farcendo di lusinghe e battute maliziose la loro estemporanea esibizione.
In ‘Beati beoti’ (Lisa Recchia e Giorgia Valeri) la vita spericolata e la gabbia della tossicodipendenza sono indicatori che mettono in guardia contro ogni forma di eccesso. È una parodia cruda e inquietante del buio delirante che obnubila le giovani menti. Il disinibito intercalare romanesco, come nel successivo
‘Le calapanze’ (Emanuele Boscioni e Martina Barboni), tra propositi dimagranti vanificati da pantagrueliche abbuffate, e insaziabile libido, impreziosisce i doppi sensi di uno scambio mordace e colorito.
‘Io so’ io’ (Riccardo Benforti) è il monologo di un vanaglorioso attore consumato dall’invidia verso colleghi più fortunati, alla perpetua ricerca di successo e di effimera adulazione. Il suo è un atteggiamento insolente e stravagante, di ostentazione e scherno verso un pubblico che ha la presunzione di dominare. Fa il pari con lo sketch di esordio.
‘Daje’ (Giorgia Valeri e Lisa Recchia) è l’episodio centrale che conforma l’opera. L’incertezza del debutto, la competizione, il conflitto interiore e con un pubblico inerte, fisso, privo di follia, e poi la paura, le incomprensioni con il regista, la tracotanza che deprime l’intelletto, la farsa di un copione che attanaglia e non convince, il respiro affannoso che sgomenta. E finalmente la voglia di liberare, insieme all’artista, la propria anima di genere. Il bisogno fisico di superare la parola, il testo, l’autore, di riprendere fiato, di immergersi in atmosfere eteree, di ritrovare l’armonia dei sensi, la gestualità del corpo, e poi danzare, volare con la fantasia, arrivare al mare.
‘My way’, sulle note di One of my turns, è il funerale della nauseabonda politica degli intrallazzi inscenato da tre commedianti (Emanuele Boscioni, Diego Parente e Francesco Casella). Celebra l’inutile rituale di un voto che come sempre ingrasserà il politico di turno per affamare i cittadini, quelli come loro, ridotti alla frutta dell’assonanza, costretti a far la questua per un sorriso, un applauso. I tre compari rispolverano malinconicamente, e soprattutto maldestramente, ‘My way’ del vecchio Frankie con dei berci sguaiati. Ma, tant’è! A volte basta il pensiero… Giunto all’ultimo sipario, fiero di avere affrontato le avversità a modo suo, senza piegare la schiena e dopo aver tanto pianto, aver morso più di quanto potesse masticare, The Voice ripercorreva il film della propria vita con animo indulgente e divertito. Ma sempre a modo suo.
‘La gente’ è il capitolo che scoperchia, lascia intendere e prefigura la soluzione. In un dialogo autoironico alquanto greve e beffardo, fatto di bisticci frontali oltreché semantici (Martina Barboni, Giorgia Valeri e Lisa Recchia), si presumono le voglie di un pubblico sfuggente, si cercano risposte ai bisogni per placare la comune arsura.
Cullati dalle melodie estreme di ‘The final cut’, è ‘Qui’ (Riccardo Benforti), nel proscenio di un teatro, come sul palcoscenico della vita, che si diviene protagonisti del proprio destino. Riscattare un percorso anonimo, pavido, riempire la mente di coraggio e idee nuove, di fiato rigenerante per tornare a correre dopo la paura, dopo essersi lasciata alle spalle l’angoscia dispnoica di una tempesta, farsi vela e prendere vento dopo la bonaccia. L’autore, attraverso il suo alter ego, castigat ridendo mores, spera di essere compreso, nobilita il mestiere dell’attore e annuncia il verbo.
‘Sconvolgere schemi ampiamente testati’, non farsi sopraffare dal timore di andare controcorrente, vivere pienamente, ‘incurante degli altri e delle distanze da mantenere’, per contrastare il malessere, perché non siamo venuti al mondo ‘per goderci il tramonto’.
Custodire l’imprevisto, lo stupore, la novità e l’eccezione che allontana dalle regole. Interrompere i circuiti perversi, ascoltare le ragioni del cuore e del pianeta che ci accoglie anziché rimpiangere, riabilitare la dignità smarrita contro l’abbrutimento della specie. ‘La vita è una boccata d’aria’.
Trasformare le parole in farfalle perché il fiato non si può sprecare, saper ascoltare per farsi ascoltare, lasciarsi andare ad inseguire l’inafferrabile, una rondine che non fa primavera. Tirarsi fuori dall’annoiante previsto e già assimilato perché non tutto è stato scritto, ‘cozzare su binari paralleli e tornare in carreggiata’ finalmente appagati.
Urlare a perdifiato dopo avercela fatta, riprendere ritmo e vigore, dopo essersi inebriati di musicalità in quella dimensione onirica del nostro altrove che è proprio l’insostenibile leggerezza dell’essere.
La vita è essa stessa astrazione, ossimoro perennemente in bilico tra pesantezza e leggerezza, perpetua, esaltante ricerca di un equilibrio, di quella quiete interiore che ci liberi dalla banalità e dall’angoscia del quotidiano.
Sulle note di ‘The fletcher memorial home’ cala il sipario.
‘Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il caso ci parla’. ‘Perdere di significato per acquisire di senso. Smarrirsi per ritrovarsi’. (Milan Kundera)
Molto bello e singolare il lavoro dell’autore, e ben rappresentato, con molte luci e poche ombre. Suggestive le musiche e le coreografie conclusive. Solo il finale, a tratti didascalico e ridondante, rischia di essere rievocativo; ribadisce dopo avere espresso e nulla aggiunge allo spirito comunque leggiadro e inebriante, alla stimolante complessità dell’opera.
Bravissimi tutti, indistintamente, gli attori della compagnia Dupla Carga guidata da Andrea Monti: Martina Barboni, Riccardo Benforti, Emanuele Boscioni, Fancesco Casella, Diego Parente, Lisa Recchia, Giorgia Valeri.
‘Fiato Corto’ è stato scritto e diretto da Andrea Monti.
Coreografie di Giorgia Valeri. Costumi di Angela Di Donna e Mariagrazia Iovine. Aiuto regia: Matelda Sabatiello. Luci: Mauro Guglielmo. Supervisione musiche: Umberto Papadia.